La richiesta di emettere un mandato di arresto nei confronti di Benyamin Netanyahu e di Yoav Gallant effettuata dal procuratore della Corte penale internazionale, Karim Khan, costituisce un’ulteriore macchia dolorosa che intacca l’immagine dello stato di Israele agli occhi del mondo.

SE ANCHE mettiamo da parte le possibili implicazioni giuridiche e i risvolti pratici, è indubbio che nell’immaginario collettivo tali affermazioni si aggiungono all’accusa di genocidio formulata dalla Corte internazionale di giustizia contro Israele lo scorso gennaio, a conferma del fatto che stiamo inevitabilmente entrando in una nuova era nella quale lo stato ebraico cessa di godere di immunità agli occhi degli organismi di diritto internazionale. Come nel caso dell’accusa di genocidio, anche l’equiparazione di Netanyahu e Gallant ai leader di Hamas sono state accolte in Israele con sdegno e condannate come inaccettabili anche dai membri dell’opposizione. Bisogna rivolgersi lo sguardo agli esponenti della sinistra radicale per leggere delle reazioni forse più razionali, ma non per questo meno dolorose. Benché passando in rassegna il documento emerga che i capi d’accusa riferiti a Hamas siano molto diversi da quelli attribuiti agli esponenti del governo israeliano, non è una novità che parlare di crimini di guerra o crimini contro l’umanità commessi nei confronti dei palestinesi per il mainstream israeliano continui ad essere un tabù, in particolare dopo il 7 ottobre.

SE DUNQUE l’obiettivo degli organismi di diritto internazionale è quello di ristabilire l’uguaglianza nei confronti delle nazioni, impedendo discriminazioni o favoritismi, nell’ottica del breve periodo il rischio è che questo tipo di pronunce sortiscano l’effetto contrario, ricompattando la popolazione ebraica e favorendo nuovamente gli interessi di Netanyahu. Per scrollarsi di dosso e delegittimare tutte le accuse rivoltegli, il primo ministro israeliano anche questa volta si è servito dell’argomentazione dell’antisemitismo strumentalizzandolo come arma per riguadagnare consensi. Del resto l’isolamento degli israeliani, che si sentono sempre più in difficoltà di fronte all’opinione pubblica internazionale, è amplificato proprio dalla crescente percezione che la distinzione fra gli esponenti del governo e cittadini israeliani, e soprattutto tra israeliani ed ebrei, sia sempre più sfumata, come dimostra l’ultimo grave episodio di razzismo all’Università di Firenze. Anche senza bisogno di vedersi disegnare una stella di David sulla porta, israeliani ed ebrei di tutto il mondo, attivisti per i diritti umani inclusi, dopo il 7 ottobre hanno compreso di essere stati ufficialmente detronizzarti dal ruolo di vittima che il dramma della Shoah gli aveva conferito agli occhi del mondo.

TUTTAVIA l’immediato schieramento di Stati uniti e Germania a favore di Israele, così come le ipocrisie e i legittimi timori delle istituzioni occidentali, che hanno tutto l’interesse a salvaguardare l’equilibrio della regione mediorientale, dimostrano che l’operazione di elevare i palestinesi a ruolo ufficiale di vittime ha dei costi difficili da sostenere fuori dalle manifestazioni studentesche e di piazza.

Sembrerebbe più corretto affermare che questa fase del conflitto si sta distinguendo sempre di più dal punto di vista semantico. La comunicazione, che vede Israele sempre in svantaggio rispetto a Hamas, dimostra che le parole hanno un peso e sono armi altrettanto affiliate. Questo vale per i social, per i cartelli usati nelle proteste e, a maggior ragione, per queste dichiarazioni drammatiche sul genocidio e sui crimini di guerra che, a prescindere dall’esito finale delle procedure giuridiche, rischiano di risuonare per decenni a spese di Israele. Il prossimo governo israeliano avrà un bel lavoro da fare per riabilitare l’immagine del paese, ricostruirlo e ridare una speranza alla popolazione. C’è da chiedersi se la sinistra israeliana liberale saprà eventualmente cogliere la sfida, mettendo finalmente la questione palestinese e la fine dell’occupazione al vertice dell’agenda politica.