Da vent’anni, l’America Latina è il laboratorio politico della sinistra mondiale.

Hugo Chavez ha inventato un modello di ‘populismo di sinistra’ che ha ispirato prima altre nazioni del continente (Bolivia, Ecuador) poi alcune tra le esperienze più innovative ed efficaci della sinistra europea (Podemos, Tsipras, Melenchon).

La prima ‘ondata’ dei governi di sinistra in America Latina ha avuto, con l‘eccezione del Brasile, questa forte impronta populista, che ha mostrato di avere basi sociali solide anche quando alcune di queste esperienze sono state sconfitte (elettoralmente, come in Argentina, o con la forza, come in Bolivia e Brasile) ma sono successivamente tornate al governo.

La vittoria di Gabriel Boric in Cile consolida la possibilità di una ‘seconda ondata’ delle sinistre latinoamericane, e segue quelle recentissime di Pedro Castillo in Perù (nazione in cui la sinistra non aveva mai vinto) e Xiomara Castro in Honduras.

Questa nuova ondata sembra più eterogenea della precedente, meno marcata dal solo populismo di sinistra (in cui comunque rientra lo stile di Castillo), forse più ancorata a una classica dicotomia sinistra/destra.

Le esperienze di entrambe le ondate esprimono spesso processi simili.

A partire dalla fine del secolo scorso, le sinistre latinoamericane hanno affrontato un lungo processo di reimmersione nella società e di rinnovamento delle pratiche, dei linguaggi e delle classi dirigenti. In molti di questi casi (non in tutti) un’amplissima mobilitazione su temi socialmente e politicamente diffusi e sentiti, capace di raggiungere e riorientare il senso comune della società, ha creato le premesse per un cambiamento politico prima impensabile.

Il caso cileno include molti di questi fattori e processi e presenta interessanti specificità. Il Cile è stato notoriamente un laboratorio neoliberista. La dittatura di Pinochet ha avuto un impatto molto radicale e durevole sulla politica e sulla società post-transizione. Il centrosinistra cileno ha governato per vent’anni in sostanziale continuità con il modello neoliberale, finché prima nel 2010, poi nel 2018, si è affermata per la prima volta dal ritorno alla democrazia una coalizione di centrodestra. Tuttavia, a partire dal 2006, e in misura ancor più impattante dal 2011, è emerso un ciclo di proteste, guidate da una nuova generazione di leader universitari, che ha colpito al cuore il modello neoliberale ricoprendo una duplice funzione.

In primo luogo, una funzione contro-egemonica: le proteste facevano leva sulle promesse disattese dal modello dominante – in primis, il passaggio dall’utopia della narrazione dell’”ascensore sociale” alla realtà concreta fatta di indebitamento privato e cristallizzazione delle disuguaglianze sociali – per chiederne la fine.

Questa funzione controegemonica ha permesso una progressiva articolazione di diverse battaglie sociali, dalle lotte ambientaliste contro un modello estrattivista oligopolistico, alla clamorosa crescita del movimento femminista, alle battaglie per il superamento dei sistemi pensionistico e sanitario privati: si è giunti in tempo relativamente breve alla graduale espansione della coalizione sociale in ebollizione, oramai ben più ampia dell’iniziale classe media delusa che fu l’incubatore delle proteste iniziali.

Come noto, il ciclo di proteste è ripartito in modo spettacolare – di nuovo durante una presidenza di centrodestra – nell’ottobre 2018 con il cosiddetto estallido social – “scoppio sociale”. Una vera e propria rivoluzione popolare, innescata da un “banale” aumento della tariffa della metropolitana e presto capace di resistere alla violenta repressione militare-governativa tanto da imporre la convocazione di un’Assemblea Costituente (dominata dalle forze del cambiamento).

La seconda funzione è stata prettamente politica e si è compiuta ieri. Le proteste hanno permesso la crescita di una nuova, giovane e radicale classe dirigente, capace di creare una nuova coalizione di partiti, nuovi o rinnovati.

Questi partiti hanno saputo relegare il centrosinistra neoliberale in una posizione minoritaria, soprattutto perché sono stati capaci di interpretare in modo più credibile l’ondata partecipativa del 2018. Questa nuova classe dirigente ha saputo evitare i rischi dell’”antipolitica”, componente importante dell’estallido social, ma declinabile anche in direzioni tutt’altro che progressiste.

Il caso cileno insegna come sia possibile costruire un progetto politico vincente proprio perché radicale, in termini di strategia politica prima ancora che di piattaforma programmatica. Insegna anche che forme d’articolazione populiste, condizione spesso necessaria alla creazione di un’ampia coalizione sociale, debbano essere accompagnate da un lavoro di rinnovamento politico spregiudicato ma anche ideologicamente informato e programmaticamente strutturato.

Come cinquant’anni fa, le “lezioni dal Cile” sono molte.