È uno che non molla mai, Paul Mason. Giornalista, economista, saggista, ha girato in lungo e in largo il mondo seguendo guerre dimenticate e rivolte sociali, tanto entusiasmanti quanto difficili da raccontare. Ogni volta ha provato, riuscendoci, a fare quella «storia del presente» prerogativa dei grandi inviati. Ha lavorato per anni per la Bbc.

Mentre tutti si domandavano, increduli, i motivi del successo del supporter della Brexit Nigel Farage alla elezioni per il rinnovo del parlamento di Strasburgo, Mason ha mandato al Guardian un commento sulla sconfitta di Jeremy Corbin, il leader che ha pubblicamente appoggiato sin dal 2016.

Lui è netto: per uscire dal tunnel della sconfitta, il Labour Party deve liberarsi dell’ambiguità, sciogliere la riserva e battersi senza se e senza ma contro la Brexit.

Eppure Mason con l’Unione europea non è mai stato tenero, descrivendola a ragione come la paladina della dittatura del mercato e dell’austerità. Ma un conto, questa l’intima verità del suo punto di vista, è battersi contro il neoliberismo scegliendo proprio l’Europa come spazio politico per far crescere una possibile alternativa al capitalismo, un conto è farlo piegandosi a un arido e conservatore nazionalismo o con un improprio populismo di sinistra.

In tutti i casi, non ha mai rinunciato alla sua indipendenza. Il suo sguardo disincantato, ma vigile, attento a cogliere quell’increspatura sulla realtà in azione, dava il senso delle potenzialità e dei rischi insiti nell’azione di una manifestazione o di una dinamica politica in divenire.

Ha scritto dalla Grecia prima e dopo la vittoria di Syriza. Ha manifestato senza reticenze il suo appoggio a Tsipras quando, da primo ministro, ha sottoscritto il memorandum capestro imposto al paese ellenico dalla troika europea, ma non mai rinunciato a criticare il governo di sinistra greco di fronte alle misure scelte, che inasprivano oltre misura il regime di austerità.

Ha scritto dalla Turchia e in diretta dalla rivolta contro Erdogan, schierandosi con il movimento di Gezi Park. Ha seguito, quando poteva, l’evoluzione e le derive islamiste della cosiddetta primavera araba.

Pochi conoscono il suo viaggiare in lungo e in largo per il Regno Unito per documentare, registrare, narrare la classe operaia inglese, le sue sconfitte, le sue trasformazioni interne. Ogni volta arricchendo i suoi reportage con riferimenti alla storia di lunga durata delle idee, sia che fossero quelle del marxismo umanista derivante da una lettura poco convenzionale dei Manoscritti economici-filosofici del 1844, che quelle stigmatizzate e criticate dell’attitudine postmoderna. E ogni volta non rinunciando a immaginare l’altro mondo possibile.

Suo è Postcapitalismo (Il Saggiatore), seminale volume sulle possibili alternative facendo crescere forme produttive e di aggregazione sociali che seguono percorsi non capitalistici, riscoprendo la ricca tradizione del mutuo soccorso e delle imprese cooperative.

Oggi, in Italia, Paul Mason torna sugli scaffali delle librerie con Il futuro migliore (Il Saggiatore, pp. 409, euro 24).

Il suo libro prende l’avvio da una radicale critica verso la «dittatura degli algoritmi», complementare alla dittatura del mercato. Quali sono i punti di saldatura, ma anche le differenze tra queste due tendenze?

L’economista Friedrich August von Hayek (ritenuto il capostipite dei neoliberisti) ha sempre rappresentato il mercato come una macchina che spontaneamente tende a un ordine e a una situazione di equilibrio. L’automatismo, è sempre Von Hayek a parlare, che è alla base del mercato è molto più efficace dell’intelligenza umana, sia di quella individuale che di quella collettiva.

Silicon Valley ci fornisce una cosa utile: macchine intelligenti che sono più produttive di quanto possano essere gli umani. Le utilizziamo intensamente per affrontare, gestire e risolvere molti aspetti problematici della vita associata. Macchine indispensabili, che alimentano tuttavia la convinzione di un loro controllo sulle nostre azioni per conto delle élite al potere.

Stiamo assistendo a una strisciante e carsica critica diffusa, di massa, che prefigura anche una fuoriuscita dall’ordine neoliberista. È come se partecipassimo a una disintossicazione per uscire dalla dipendenza di una droga pesante che può avere la consistenza di una macchina, di un automatismo alieno dalla vita umana quotidiana.

Il capitalismo è spesso descritto, in parte lo fa anche lei, come un regime retto da un pensiero unico che unisce idealmente la effervescente e rumorosa Silicon Valley alle stanze segrete e ovattate del comitato centrale del partito comunista cinese. Può descrivere il profilo di questo pensiero unico?

Se il mercato è una macchina e i computer sono macchine, dobbiamo essere consapevoli che anche lo Stato lo è. Il Leviatano di Thomas Hobbes è stato spesso equiparato a «un uomo artificiale». Possiamo tranquillamente affermare che lo Stato è un robot. Durante i duecento anni di storia del capitalismo, abbiamo ceduto il controllo delle nostre vite al sistema di fabbrica e all’agire impersonale dello Stato nazionale.

La critica al capitalismo nel diciannovesimo secolo ha messo a fuoco la perdita di controllo esercitato dalle logiche mercantili dominanti sul presente e sul futuro delle società. Nell’Ottocento la figura che meglio incarna questa alienazione delle possibilità di autodeterminare la propria vita è Fantine, la donna de I miserabili di Victor Hugo che vede spegnere la sua iniziale solarità e viene ridotta al silenzio dall’ostracismo della morale bigotta; nel Novecento le figure rappresentative di questa impossibilità vanno rintracciate nei romanzi e nei racconti claustrofobici di Franz Kafka.

In entrambi i casi, non ci sono responsabili diretti: tutti coloro che operano costrizione e esercizio del potere sui protagonisti di queste storie rispondono a logiche impersonali, automatiche.

Ora dobbiamo fare i conti con una realtà altrettanto foriera di alienazione e anomia, come lo è, ad esempio, la realtà cinese governata da un partito comunista che opera per rafforzare il capitalismo; oppure, dobbiamo constatare che le nostre scelte sono manipolate da meccanismi anonimi, come quelli evidenziati nell’affaire di Cambridge Analytica.

Con il senno di poi, possiamo affermare che il capitalismo prefigura sempre la cessione del controllo sulle nostre vite a processi anonimi e automatici. Nella contemporaneità sono le élite a mantenere il controllo sulle ricerche attinenti l’Intelligenza artificiale, sulla gestione dei Big data.

Il compito che ci attende è di muoverci in una realtà che vede una radicale estrema asimmetria di potere, per produrre un’altrettanta radicale semplificazione tra il popolo e le élite.

Ne Il futuro migliore, lei si sofferma sulla tendenza antiumanistica, un elemento portante dell’era neoliberale. Può illustrare da cosa è caratterizzata questa tendenza?

Il neoliberalismo si poggia sull’astrazione sviluppata da John Stuart Mill e Vilfredo Pareto sull’homo economicus, una fugura idealtipica presentata come essenza della natura umana. Una astrazione imposta, inoltre, come sinonimo di azione economica. Se propongo di aprire una nuova libreria in una piccola città, ogni abitante di quel paese, dal librario all’amministratore locale, si domanderà se «sarà una cosa buona per l’economia locale». Nessuno chiederà invece se «sarà una cosa buona per la vita in quel paese».

Le prese di posizione della destra radicale esprimono sempre un pensiero antiumanistico, dai forti risvolti antiuniversalisti. Il soggetto umano è ingabbiato in una stringente gerarchia: se sei un uomo bianco, un maschio bianco alfa, una bella donna va bene; ma se sei una donna brutta, un gay, un nero, un transgender, un rifiugiato, sei un essere non del tutto umano. Ma tale deriva antiumanistica, anche se ha esiti diversi, è presente pure in quella tendenza di sinistra presente nell’Accademia o nella riflessione postoperaista.

Secondo questa variante dell’antiumanismo, l’umanità è un prodotto sociale. Possiamo dire però che questo attacco all’umanesimo, che comprende anche la filosofia del Marx dei Manoscritti del 1844, della filosofia postmoderna ha asfaltato la strada maestra che la macchina del controllo percorre senza fermarsi mai.

Siamo vissuti nel passaggio dall’imperativo «competi e consumi» all’altrettanto crudele comandamento «competi, consuma, menti, controlla e uccidi. È l’imperativo alla base di un darwinismo sociale inseparabile dall’ideologia neoliberista. Per queste parole d’ordine, lo Stato nazionale, le imprese, il mercato e le organizzazioni internazionali possono limitare l’agire democratico, i diritti civili, politici e sociali…

Il neoliberalismo è sempre un sistema coercitivo. I suoi pionieri sanno che, attraverso la distruzione creativa, il mercato ha coercitivamente colonizzato l’intera vita umana. E questo non è accaduto a causa delle sue forze, bensì per le leggi di mercato che hanno regolamentato i comportamenti individuali e collettivi: così adesso una libreria pubblica non ha lettori, ma «consumatori».

Gli studenti non fanno parte di una comunità dedita allo studio e alla ricerca: sono equiparati, e quindi trattati, come utenti paganti. Possiamo dire che è attorno al 2001 che vengono introdotti modi di regolamentazione che coercitivamente introducono precise regole di comportamento, con buona pace della propagandata capacità del mercato di autoregolamentarsi.

Nel libro analizzo le strategie degli stati per elaborare e imporre queste regole di comportamento, assieme al ruolo svolto da incontri come i Ted Talk – meeting che seguono uno schema propagandistico che ricorda il nazismo, pensati però per persone ipocritamente à la page – per diffondere punti di vista che evocano la necessità di nuove e maggiormente coercitive regole per prevenire il completo fallimento del sistema.

Ma come segnala il movimento francese dei gilet gialli, quando il neoliberalismo vuol essere brutalmente imposto la rivolta è la risposta prevedibile. E auspicabile. La repressione delle forze di polizia in Francia mostra, inoltre, la brutalità di chi vuol imporre dall’alto il neoliberalismo, indipendentemente dalla sua crisi.

Nel suo libro descrive le manifestazioni di protesta avvenute nel giorno di insediamento di Donald Trump. Sono pagine poetiche e avvincenti dove narra l’incontro con amici giornalisti e fotografi che hanno seguito le rivolte antiliberiste che hanno costellato l’ultimo decennio del Pianeta. Poi, racconta la «rivolta dei fiocchi di neve». Chi sono questi fiocchi di neve?

Fiocchi di neve è l’insulto rivolto dalla destra radicale contro la sinistra, il movimento femminista, i gay, i migranti. Insomma un fenomeno destinato a sciogliersi senza lasciare traccia. Penso invece che nel momento che «dici no» metti in discussione la cupola posta dal potere per ingabbiare la tua vita, lasciandoti l’illusione di vivere in libertà.

C’è quindi da celebrare i fiocchi di neve. Sono belli da vedere, certo temporanei ma unici nel loro manifestarsi. Sono consapevole che è solo una metafora, ma gli uomini e le donne della mia generazione esprimono frustrazione quando parlano dei giovani, descrivendoli come soggetti passivi o come ossessionati dalla politica delle identità.

Credo che l’autonomia delle persone umane sia la pacata ma indispensabile base per esprimere la resistenza al potere.

Se pensiamo ai movimenti come Me Too, Black Lives Matter e ad altri, non possiamo che considerarli come parte vitale di quella «insurrezione dei fiocchi di neve» per affermare il diritto a non essere uccisi, stuprate, molestate.

Lo slogan «prima l’America» è la parola chiave del populismo di Donald Trump. Quali sono le radici del populismo statunitense?

È la forma assunta dal nazionalismo neoliberista, espressione di quella che chiamo «thatcherismo in un solo paese». La élite che si è raccolta attorno a Trump lo ha fatto per rompere il meccanismo del sistema multilivello che regolava l’ordine mondiale. Vogliono una deregulation ben più radicale di quella attuale perché così facendo credono di potere affrontare con un’arma in più la competizione con la Cina, l’Europa e le altri nazioni in via di sviluppo. Fanno leva su una supposta insicurezza dei bianchi e al pericolo rappresentanto dall’onda culturale che li sta sommergendo. Parlano della condizione dei bianchi quasi si trattasse delle vittime di uno scontro tra bande. E sono indifferenti al fatto che la possibilità di un afroamericano di essere ucciso dalla polizia è molto più alta di un bianco che viene fermato da quella stessa polizia per strada.

Non è certo la povertà che rende insicuri i bianchi nativi che rivendicano la loro supremazia. Non c’è infatti nessuna onda culturale a minacciare la loro sopravvivenza. Il timore semmai è di perdere i privilegi delle élite.

Quello che sta accadendo con Trump è che c’è una parte delle élite disposta a rispondere agli appelli del suprematismo bianco. Questo accade perché, a livello mondiale, il conservatorismo culturale e politico ha perso ogni difesa per arginare il fascismo che lo pungola da vicino.

Anche se non sono fascisti, questa destra ha iniziato ad accettare le premesse che sono alla base del fascismo contemporaneo: l’antislamismo, l’antifemminismo e tutte le teorie sull’esistenza di una naturale e immutabile gerarchia biologica che assegna a una «razza» il predominio sulle altre.

Il populismo è una tendenza presente in Europa, America latina, Asia. Ogni paese e continente ha tuttavia un suo populismo. Leggendo il libro, si ha la sensazione che abbiano dei punti contatto, convergenze, caratteristiche simili. È così?

Attualmente populismo è un termine onnicomprensivo. Può indicare la mobilitazione del popolo contro le élite rispetto una lettura di classe, ma può spesso alludere a una narrazione razzista delle relazioni sociali. I due fenomeni sono diversi. Se guardiamo retrospettivamente come si è formato politicamente l’attuale populismo non possiamo che constatare che esso ha funzionato come stampella al neoliberismo in crisi. È però innegabile che abbia costituito una riscoperta della politica nel regime depoliticizzato del neoliberalismo.

Una volta che si è constatato che le forze di mercato non potevano risolvere i problemi e le necessità sociali che emergevano nei diversi paesi, è stato facile constatare che i pensieri politici tradizionali – liberale o socialdemocratico – non funzionavano perché atrofizzati, ormai incapaci di dare risposte alle domande che emergevano dalla società.

Voglio, ovviamente, che la sinistra vinca questa battaglia sul futuro del nostro pianeta e dei paesi dove viviamo. Ma affinché ciò accada, deve trovare la sua narrazione, ritrovando la capacità di attirare le masse popolari, come avrebbe detto un dirigente di sinistra del passato. Sia ben chiaro, recentemente questo si è verificato. Nel 2015 ho trascorso molti mesi in Grecia e ho visto che Syriza e Tsipras sono riusciti a farlo. Significa che la sinistra deve ritrovare una dimensione utopica.

Il futuro migliore che auspico nel libro ha proprio a che fare con il tentativo di contribuire a definire un doppio movimento: razionalità nelle risposte e utopia nella prospettiva di una società libera.

Nel libro offre un ampio excursus storico sullo sviluppo delle macchine. Le macchine meccaniche servivano ad alleviare la fatica umana nel fare alcune operazioni. Nelle fabbriche, tuttavia, sono state usate per controllare il lavoro vivo. Il luddismo, cioè la distruzione delle macchine da parte dei lavoratori, è considerato l’atto fondativo del moderno movimento operaio. Ora le macchine digitali riproducono e simulano il fattore immateriale dell’essere umano: il pensiero. L’ultimo rapporto dell’Ocse parla di milioni e milioni di posti di lavoro cancellati dalle macchine intelligenti. Qual è la sua opinione rispetto la tesi del lavoro ormai ridotto a risorsa scarsa?

L’automazione riduce e ridurrà il numero di ore lavorate necessarie a garantire una vita sostenibile nel pianeta. Ma se noi assistiamo inerti e passivi a questa tendenza del sistema capitalistico non potremmo che constare l’ascesa di un feudalismo digitale: persone ricche che hanno il potere di accedere all’informazione e una vasta platea di utenti della Rete che non potranno accedere perché non hanno i mezzi economici, a una conoscenza e informazioni di qualità.

Non è però così automatico che la destra politica e economica voglia accelerare i processi di automazione. Il capitalismo ha bisogno di consumatori paganti. E questo è possibile se lavorano, anche se svolgono un lavoro di merda poco pagato. Questo è indispensabile affinché posseggano uno smartphone e una carta di credito, elementi indispensabili per pagare una merce acquistata, pur se significa indebitarsi.

L’estrazione di valore c’è solo se c’è chi lavora.

Attualmente assistiamo alla crescita di lavoratori precari e sottopagati, una situazione sociale drammatica per milioni e milioni di uomini e donne. La mia tesi è per uscire dagli effetti drammatici dell’automazione è di sganciare il reddito dal lavoro attraverso il reddito di cittadinanza e l’accesso ai servizi sociali su base universale.

Lei scrive sul costo marginale vicino allo zero come caratteristica dell’economia di rete. E lo mette comunque in relazione con la disoccupazione di massa. Può spiegare questo passaggio?

Il fenomeno del costo marginale vicino allo zero fu descritto dall’economista premio Nobel Paul Romer nell’ormai lontano 1990. Successivamente è stato ripreso da Jeremy Rifkin: i prodotti informazionali possono essere riprodotti a costo zero, senza perdere il loro valore.

Questo significa che tale fenomeno può generare alti profitti per le imprese e un mezzo che favorisce una loro scarsità artificiale creata da imprese che esercitano un monopolio. Prendiamo un pirata che si appropria di un file Mp3 dalla piattaforma Spotfy o da Apple Music. Lo fa per ascoltare la musica amata. Niente di eclatante.

Attraverso la protezione legale della proprietà su quel file le imprese possono sviluppare un monopolio sulla distribuzione e produzione della musica in questione. Per la piattaforme digitali scaricare la musica significa inoltre maggiori profitti alla luce di un costo praticamente nullo, tolta la sua memorizzazione e masterizzazione già ammortizzata con il primo downloading del brano musicale.

Non c’è nessuna relazione diretta tra questo fenomeno e la disoccupazione di massa, sebbene sia chiaro che se viene diffuso un metodo per accedere gratuitamente a quei beni informazionali distruggerebbe i monopoli esistenti.

Una impresa può dare un prezzo, spesso basso, a un brano musicale, ma i costi per riprodurlo sono inesistenti. Far venire meno questo fenomeno significa collocarsi sul crinale di una produzione e distribuzione oltre le regole del mercato.

Nel suo libro scrive anche dello stato dell’arte del marxismo. Interessanti sono le parti relative al «marxismo non marxista» cinese…

Il mio non è un libro sul marxismo, né sull’eredità marxista. Semmai si colloca nel solco di un marxismo umanista sviluppata a partire dalla metà del ventesimo secolo da studiosi come la libertaria Dunayevskaya Fromm e l’antillano CLR James. Voglio mostrare che la difesa dell’essere umano dal controllo delle macchine ha bisogno di una «teoria dell’umano».

La teoria più popolare dell’umano è stata sviluppata dallo storico e saggista israeliano Yuval Noah Harari, che in uno dei suoi libri scrive però che noi siamo già «algoritmi».

La visione marxista della natura umana afferma che noi siamo l’unica specie capace di sviluppare una storia sociale, cioè di vivere in società attraverso l’uso dell’immaginazione e la produzione di specifiche tecnologie. È una visione teleologica da respingere che ha tuttavia molti punti di contatto con il determinismo presente nello strutturalismo di Louis Althusser e il postmodernismo.

Per alcuni studiosi, l’ideologia antiumanista slitta verso una ideologia transumanistica….

Il transumanesimo è l’idea che l’individuo può essere reso perfetto, ad esempio attraverso la bio-ingegneria. Il Postumano allude ai progetti per creare una specie o una razza umana migliore dell’homo sapiens sulla base di una visione del tutto accademica che noi siamo già degli algoritmi, cioè che possiamo essere rappresentati come un algoritmo controllato da un macchina.

Rigetto il transumanesimo. Sia strategicamente che tatticamente, perché è una ideologia per il rafforzamento individuale, non per la liberazione della specie. So che il postumano ha anche una lettura diciamo di sinistra, incentrata sulla legittimazione che la vita debba essere controllata dalle macchine per essere migliorata.

Non è però un caso che alcuni giganti della Silicon Valley siedano stabilmente in «comitati etici» manifestando punti di vista transumanisti. In fondo, il transumanesimo può diventare un ricco settore e un mercato da sviluppare.

Cancellare il futuro. È questo l’imperativo del regime neoliberista. Però erode le possibilità di trasformare la realtà…

Trovare l’altro e agire assieme. Concepire cioè una moderna virtù etica nella quale lavorare per una buona società, stabilendo quali siano le cose necessarie per soddisfare le necessità umane. Immaginare, cioè, un mondo oltre il neoliberalismo e operare affinché ciò possa accadere.

I millennials sono la dannazione dei media conservatori. Allo stesso tempo sono il settore della popolazione corteggiata dalle imprese e dai pubblicitari. Per lei sono una importante risorsa per cambiare il mondo. Può dirci perché?

Non manifesto nessun feticismo verso i millennials, che tra poco tempo considereremo come giovani uomini e donne cresciuti conoscendo solo società in crisi. Per loro le questioni importanti saranno: come evadere dalla crisi delle società occidentali senza cadere nel fascismo e come garantire una fuoriuscita pacifica dal carbone e dalla dittatura del mercato.

Attualmente vivono in una condizione paragonabile a quella degli inizi del ventesimo secolo – su quel clima ha scritto bellissimi romanzi e racconti Stefan Zweig – ma con una significativa differenza. Agli inizi del Novecento c’era la speranza di una vita migliore, adesso la realtà parla di povertà e disuguaglianze in crescita, di guerra e di disoccupazione.

Melanconicamente possiamo constatare che chi giunge alla maggiore età deve lottare contro l’autoritarismo della destra e che il tempo per cambiare il mondo è sempre minore. Per questo penso che dobbiamo essere ottimisti e guardare ai millennials come a una risorsa.