La novità è che non ha pronunciato la formula «senza escludere l’utilizzo della forza». Xi Jinping ribadisce l’impegno alla «riunificazione» tra Repubblica popolare cinese e Taiwan, definendola una «questione interna» nella quale non saranno ammesse «interferenze». Lo ha fatto parlando dalla Grande sala del popolo, in occasione del discorso in memoria della rivolta di Wuchang, la scintilla che fece esplodere la rivoluzione Xinhai che portò alla fine della dinastia Qing e alla fondazione della Repubblica di Cina. Quella Repubblica di Cina che oggi è il nome ufficiale di Taiwan, la cui separazione dalla «madrepatria» per Xi è il risultato di debolezza e caos che ora hanno lasciato posto a forza e ordine.

ECCO PERCHÉ «nessuno dovrebbe sottovalutare la determinazione del popolo cinese e la sua forte capacità di difendere la sovranità nazionale». Dopo la restituzione (e normalizzazione) di Hong Kong e Macao, il «secessionismo di Taiwan» resta «il grande ostacolo alla riunificazione nazionale e una seria minaccia al ringiovanimento nazionale. Chiunque voglia tradire e separare il paese sarà condannato dalla storia».
Ma, rispetto al recente passato, i toni del discorso sono stati meno aggressivi. «La riunificazione con mezzi pacifici serve al meglio gli interessi della nazione cinese nel suo insieme, compresi i connazionali di Taiwan», ha dichiarato Xi, citando la necessità di aderire al principio dell’unica Cina e al «consenso del 1992».

A LUGLIO AVEVA PROMESSO di «distruggere» qualsiasi tentativo di indipendenza formale di Taipei. Ancora più emblematico il discorso del 2 gennaio 2019, quando non escluse l’utilizzo della forza per completare la riunificazione. Parole volte a spingere il Guomindang verso le elezioni presidenziali del 2020, ma che unite alle proteste e alla stretta su Hong Kong ebbero l’effetto opposto, spianando la strada alla conferma di Tsai Ing-wen. L’ufficio di presidenza di Taipei, in attesa del discorso di domenica di Tsai, ha respinto l’offerta del modello «un paese, due sistemi», reiterata da Xi. E il Consiglio per le relazioni intrastretto ha invitato Pechino ad abbandonare le «misure provocatorie e di intrusione», sottolineando che «solo i 23 milioni di abitanti» dell’isola hanno il diritto di «decidere il futuro e lo sviluppo di Taiwan».

L’APPROCCIO SCELTO DA XI resta significativo, vista la particolare contingenza in cui si arriva alla data del 10 ottobre. Tra venerdì 1° e lunedì 4 ottobre gli aerei dell’esercito popolare di liberazione hanno operato 156 incursioni nello spazio di identificazione di difesa aerea taiwanese (non riconosciuto da Pechino), alzando la pressione militare a livelli sconosciuti nel recente passato. Tanto che il ministero della Difesa di Taipei ha parlato di invasione possibile entro il 2025. Poi è arrivata la notizia dello stazionamento in territorio taiwanese di un contingente di consiglieri militari statunitensi impegnati nell’addestramento delle forze locali, alla quale il governo cinese ha reagito in maniera meno energica di quanto prevedibile. Potrebbe aver inciso il riavvio del dialogo diplomatico con gli Usa, dopo l’incontro tra Jake Sullivan e Yang Jiechi, in attesa di quello virtuale tra Xi e Joe Biden.

ED ECCO ALLORA che Xi implementa una «narrativa storica olistica», come l’ha definita Xie Maosong dell’università Tsinghua. Narrativa secondo la quale la visione di Sun Yat-sen è stata ereditata proprio dal Partito comunista dopo la morte del fondatore del Guomindang e primo presidente della Repubblica di Cina, e non dai nazionalisti di Chiang Kai-shek fuggiti a Taiwan.
Nelle scorse settimane, tra l’altro, Xi ha ritrovato un possibile interlocutore politico a Taiwan in Eric Chu, nuovo leader del Guomindang che ha interrotto il processo di taiwanizzazione del partito che ora Pechino spera possa tornare in corsa per la vittoria alle elezioni del 2024. Anno potenzialmente decisivo, ma intanto Xi non resterà fermo. La zona grigia intorno a Taiwan, al di là delle dichiarazioni ufficiali, continua a estendersi.