È un paradosso significativo che il movimento D, di cui ricorre il quinto anniversario, sia nato nell’era “post razziale” di Obama.

DURANTE IL MANDATO del primo presidente nero lo stillicidio di uccisioni di giovani neri da parte della polizia sembra incarnare istituzionalmente la reazione razzista di quella parte del Paese che non può e non ha voluto tollerarlo. L’ultima incarnazione del movimento di emancipazione nera nasce come risposta diretta ai macabri bollettini che giungono dalle strade della città americane. Su quelle strade le vite di centinaia di uomini e ragazzi neri, viste attraverso il mirino della polizia, valgono meno di zero.

Negli ultimi anni l’accumularsi delle uccisioni, sempre più spesso documentate nelle immagini sgranate di telefonini e siti social, diventa insopportabile, soprattutto dopo casi celebri come l’uccisione dell’adolescente Trayvon Martin da parte di un vigilante nel 2012. Il macabro elenco di vittime prodotte dall’intersezione di razzismo, giustizialismo, violenza e idolatria delle armi da fuoco è la causa scatenante di Black Lives Matter («le vite nere contano», in sigla Blm).

E dopo la sua fondazione, l’uccisione di Eric Garner, Terence Crutcher, Philando Castile, Sandra Bland, Freddie Gray, Walter Scott, Laquan McDonald, Keith Lamont Scott, Alton Sterling, Tamir Rice e dozzine di altri – tutte impunite – è sostanzialmente la risposta politica della polizia di quella che non può che definirsi una guerra «a bassa intensità».

LA MORTE di Michael Brown in un sobborgo del Missouri nell’estate del 2014 scatenerà le rivolte di Ferguson, la prima rivolta in cui il nuovo movimento afroamericano, che sfocia poi in Blm, è protagonista di una resistenza sul campo. In seguito la rabbia esploderà a New York, Baltimora, Houston… e sulle strade Blm diventa punto di riferimento per una nuova generazione di giovani militanti afroamericani, nipoti di Martin Luther King, faccia a faccia con una violenza che esplicita la discriminazione profonda e quotidiana che nega le conquiste dei padri, pur mentre ne elogia la «retorica della speranza».

Me lo spiegava nel 2016 una giovane leader, durante una manifestazione a Los Angeles. «Io sono una militante di terza generazione», mi disse allora. «Tempo fa ci è capitato di sfilare sotto i manifesti pubblicitari di Selma (il film di Ava DuVernay sulla storica marcia di Martin Luther King in Alabama). Vedete l’ironia? Stiamo tornando a combattere le lotte dei nostri nonni».

TA-NEHISI COATES, una delle voci più nitide della nuova coscienza nera, pubblicava allo stesso tempo Tra me e il mondo, che sotto forma di lettera straziante al figlio tentava una sintesi della civiltà fondata sin dall’origine sullo scempio effettivo e metaforico del corpo nero – la versione letteraria del discorso che ogni genitore nero in America è tenuto a fare, come un rito di passaggio adolescenziale soprattutto per i figli maschi, per far sì che non si facciano ammazzare dalla polizia sulla via di casa o a un posto di blocco. Una vera, concreta, quotidiana eventualità che accomuna classi subalterne e borghesia nera e confuta l’illusione di emancipazione.

Il nome del nuovo movimento rivendicava un valore umano per quelle vite cancellate. Sarebbe stato difficile allora prevedere che di lì a poco i governi europei avrebbero a loro volta ufficialmente assegnato a tutti quei corpi dalla pelle scura affogati nei flutti del Mediterraneo un valore uguale a zero – una deumanizzazione prerequisita e necessaria all’impulso fascista e non casualmente punto cardine dell’involuzione nazional populista che sarebbe seguita di lì a poco. Una condivisa ossessione per le gerarchie, per le tassonomie fra razze, fra cittadini e stranieri, «padri di famiglia» e poco di buono, accomuna non a caso il trumpismo e il nazionalismo identitario ascendente in Europa.

UNA PULSIONE ANTICA, che gli afroamericani hanno subito riconosciuto come atavica componente di una società fondata con lo schiavismo, una violenza rimossa come quella del colonialismo. Il progresso sociale americano può in larga misura venir misurato con l’elaborazione di quel retaggio, un processo frutto di successivi movimenti di protesta. Non sorprende quindi che la natura del trumpismo dipenda dal ripristino di «equilibri originari»: l’azzeramento della presidenza nera innanzitutto (di molte politiche, certo, ma ancor più di Obama come simbolo) e di più, la neutralizzazione delle conquiste del movimento per i diritti civili e la restaurazione di antichi meccanismi di controllo sociale. Il colpo di coda violento di un Occidente bianco in panico demografico è in misura fondamentale una restaurazione razziale.

Obama non aveva traghettato il Paese in un Eden post-razziale – ma il suo attorney general, Eric Holder, aveva parlato apertamente di «complesso penale-industriale» e dell’insostenibile razzismo del gulag americano che imprigiona due milioni di individui, di cui un terzo afroamericani. Il successore trumpista di Holder è un «galantuomo dell’Alabama» di vecchia scuola, che sarebbe più a suo agio in un circolo di ufficiali confederati che in visita a un carcere.
E JEFF SESSIONS nell’amministrazione Trumpdetiene il portafoglio delle politiche eugenetiche. Difende la bandiera confederata e i monumenti agli eroi sudisti della guerra civile, denuncia la protesta di atleti neri e invoca un nuovo patriottismo. Non casualmente Nehisi Coates, per descrivere la transizione, parlerà di paradigma della reconstruction: il tentativo nordista di riformare il Sud schiavista dopo la guerra civile, fallito per lasciare il posto a Ku Klux Klan, alla stagione dei linciaggi e alla segregazione istituzionalizzata durata un secolo.

LA QUESTIONE RAZZIALE è quindi al centro della faccenda, in Alabama come a Rosarno o a Lampedusa. Su entrambe le sponde dell’Oceano la partita che si gioca è quella eugenetica e siamo già alla pulizia etnica – nei «lager per la tenera età» in Texas o in quelli dati in franchising alla Libia. Black Lives Matter è stato dunque più che lungimirante nell’analisi politica e può ricoprire un ruolo importante nella resistenza (vedi i contatti fra Blm e i giovani del nuovo movimento americano anti-armi).

La questione che minaccia di dilaniare l’Europa, in America prende la forma di un attacco frontale ed esistenziale all’esperimento multiculturale americano. Una resistenza americana è forse l’ultimo baluardo alla forza che minaccia di divellere la democrazia occidentale e di istaurare un neo totalitarismo liberista e illiberale, securitario e razzista.

In questa cruciale resistenza Black Lives Matter continua ad esercitare un ruolo primario, ora come parte del Movement for Black Lives, una confederazione di oltre 50 formazioni militanti che si adopera per la sconfitta del trumpismo – alle urne ma anche di più, come sostiene Melina Abdullah, esponente di spicco di Blm in California: «Noi adottiamo l’idea abolizionsita, il che vuol dire non solo rovesciare il sistema che ci opprime, ma applicare quello che Robin Kelley definisce ‘l’immaginazione radicale’ del tipo di mondo migliore in cui vogliamo vivere».