Non era facile ottenere un visto per l’Iraq, alla vigilia della seconda guerra del Golfo.
A offrirci una scappatoia era stata la delegazione di «Un ponte per…» (l’unica ong italiana presente in Iraq) che partecipava alla manifestazione contro la guerra del 15 febbraio a Baghdad. Come in tutto il mondo anche in Iraq si era manifestato contro la minaccia di guerra. Lo spirito era sicuramente diverso da quello delle piazze occidentali, l’ostentazione di forza voluta da Saddam Hussein non riusciva a cancellare il sentimento di drammaticità che lo spettro della guerra imminente – la seconda del Golfo – suscitava. Anche se Baghdad, dopo i bombardamenti del 1991, era stata completamente ricostruita le lacerazioni della guerra non si rimarginano facilmente. Le immagini delle manifestazioni irachene e quelle di tutto il mondo erano state trasmesse ossessivamente per tutto il giorno dalla tv irachena. La decisa opposizione alla guerra era però l’unico punto in comune tra le manifestazioni militaresche di regime e quella dei pacifisti giunti a Baghdad da tutto il mondo.

Ero stata nella capitale irachena anche alla vigilia della prima guerra del Golfo, quando si scandivano i rintocchi dell’ultimatum lanciato da Bush padre, il clima era completamente diverso anche se le immagini si potevano sovrapporre: bandiere americane bruciate, donne velate con ciador neri e veli bianchi, uomini e bambini che esibivano striscioni contro la guerra. Gli iracheni non avevano altra scelta che difendere Saddam contro l’aggressione esterna ma la parola d’ordine del regime «Combatteremo il nemico e vinceremo» era più una consolazione che una convinzione. L’embargo in vigore dal 1990 aveva avuto effetti devastanti sulla popolazione – le sanzioni non colpiscono i dittatori ma la popolazione – soprattutto sui bambini.

Negli ospedali madri consumate dal dolore assistevano i figli malati senza nessuna possibilità di salvezza perché mancavano le medicine. Assistere al dramma che si nascondeva dietro lo sguardo assente delle madri e la disperazione dignitosa di queste donne era straziante. Molti dei bambini erano malati di cancro, soprattutto leucemia, effetto dei bombardamenti all’uranio impoverito della prima guerra del Golfo. Malaria e altre malattie causate da punture di insetti avrebbero potuto essere facilmente curate se i cocktail per la terapia fossero stati disponibili, ma alcuni prodotti necessari erano considerati di doppio uso – usati anche per la produzione di armi! – quindi non importabili. Le sanzioni dell’Onu avevano comportato l’isolamento non solo economico ma anche psicologico: gli iracheni non avevano più la possibilità di uscire dal paese.

L’ostentato orgoglio del popolo iracheno mal celava una sorta di fatalismo e rassegnazione, che nessuno spiraglio, nemmeno le dichiarazioni degli ispettori dell’Aiea o il messaggio del papa potevano scalfire.
La macchina della guerra era già in moto e gli iracheni non si facevano più illusioni: «se la guerra deve cominciare cominci», mi diceva una donna mentre gettava l’ultimo sguardo sui libri di Mutanabbi Street.