L’Accordo di Abramo, tra Israele e quattro paesi arabi, nelle analisi e previsioni di molti, doveva ridisegnare il sistema di alleanze regionali e cancellare la questione palestinese. Mai come in questi giorni mostra i suoi limiti. La sollevazione dei palestinesi contro la confisca e le demolizioni delle loro case a Gerusalemme, nel cuore della città che Donald Trump, contro le risoluzioni internazionali, ha riconosciuto nel 2017 come la capitale di Israele, conferma che la madre di tutti i conflitti in Medio oriente è sempre lì, a ricordare al mondo che senza una giusta soluzione per il popolo palestinese sotto occupazione la «normalizzazione» nella regione resterà una ipotesi. Lo riconosceva ieri, ad esempio, Amos Yadlin, ex generale e analista israeliano. «La questione palestinese non è svanita» spiegava alla tv Kan rimarcando come la moschea di Al-Aqsa sia come sempre un focolaio di tensione e Gaza resti un «perenne barile di esplosivo».

Se in Israele fanno i conti con la resurrezione della resistenza popolare palestinese alle politiche di insediamento coloniale a Gerusalemme Est e in Cisgiordania, il presidente Abu Mazen e i vertici dell’Autorità Nazionale (Anp) appaiono colti di sorpresa dall’escalation e poco propensi ad andare oltre le rituali dichiarazioni di condanna di Israele e gli appelli a un improbabile intervento della comunità internazionale. Venerdì sera mentre le granate stordenti lanciate dalla polizia esplodevano tra i piedi dei palestinesi sulla Spianata di Al Aqsa, Abu Mazen non ha saputo andare oltre la critica al comportamento del governo Netanyahu e la richiesta di una sessione di emergenza del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. La sua gente invece non ha più fiducia nella comunità internazionale. E le deboli pressioni che gli Usa e l’Europa hanno fatto su Israele affinché facesse partecipare alle legislative dell’Anp anche i palestinesi di Gerusalemme Est, ha rafforzato lo scetticismo degli abitanti dei Territori occupati verso le intenzioni di Washington e Bruxelles.

Proprio la decisione presa da Abu Mazen di rinviare il voto senza far ricorso a soluzioni alternative – qualche palestinese aveva proposto l’apertura di seggi non ufficiali nella zona araba di Gerusalemme Est in sfida a Israele – si sta rivelando un boomerang alla luce di quanto avviene in questi giorni di impegno popolare contro lo sgombero di case palestinesi nel quartiere di Sheikh Jarrah, la chiusura della Porta di Damasco durante il Ramadan e le demolizioni di abitazioni arabe a Silwan. «Abu Mazen e l’Anp godono di scarso consenso tra i palestinesi e quanto sta avvenendo danneggia ulteriormente l’immagine di una presidenza incolore e priva di iniziativa politica» ci spiega l’analista Hamada Jaber di Ramallah. «Abu Mazen» aggiunge «è molto cauto quando la popolazione dei Territori manifesta in massa contro l’occupazione, sa che la protesta ad un certo punto può rivolgersi anche contro l’Anp. Pertanto non va oltre le solite dichiarazioni già ascoltate in queste circostanze».

In queste ore appare incerto anche Hamas a Gaza. Il suo capo militare, Mohammed Deif, qualche sera fa ha minacciato Israele di pesanti conseguenze se le famiglie palestinesi saranno sgomberate da Sheikh Jarrah. E il suo leader politico, Khaled Mashaal, ha esortato a «lanciare una nuova Intifada». Ma nei fatti il movimento islamico è prudente. «Gerusalemme e al Aqsa sono una linea rossa per Hamas ma i suoi dirigenti non vogliono andare a una nuova guerra con Israele che avrebbe conseguenze devastanti per Gaza, già in condizioni di emergenza umanitaria», ci dice il giornalista Aziz el Kahlout.