La crisi sociale di lunga durata innescata dal Covid non è stata compresa dal governo e della sua maggioranza. E nessuno sembra volerlo fare in futuro. La sconcertante verità è riemersa negli annunci su un nuovo decreto da inserire nella legge di bilancio oppure da anticipare a novembre. Nessuna visione complessiva, solo interventi categoriali e temporanei. Nessuna riforma radicale dello Stato sociale, ma una sistematica confusione del Welfare con le tecniche assicurative privatistiche chiamate, a seconda dell’estro burocratico del ministro di turno, «bonus» o «ristori», ovvero risarcimenti e compensazioni a famiglie o a imprese, spesso confuse in un unico ircocervo sociale senza distinzioni a cui destinare provvedimenti emergenziali, mai sistematici.

Ma la coperta si è rivelata corta già dal decreto «Cura Italia» a marzo, non perché mancano i fondi, ma per la mancanza di una visione d’insieme. A seconda della capacità di fare lobbying sulla politica, in particolare quella locale, spunta sempre una categoria non risarcita. Ciò ha imposto al governo di adottare altri decreti che però lasciano scoperte altre categorie. Si potrebbe proseguire all’infinito ottenendo lo stesso risultato: ricominciare da capo. L’ultimo caso è il «ristoro» annunciato dal ministro dei beni culturali Franceschini per una categoria dei lavoratori dello spettacolo, quelli dello «spettacolo viaggiante». Il loro fondo sarà portato a dieci milioni. E dopo? E tutti gli altri, prima esclusi dai «bonus» per le partite Iva e collaboratori durati tre mesi, non più rinnovati, e oggi «richiusi» dal nuovo «Dpcm»? E le partite Iva iscritte alla gestione separata dell’Inps e quelle del lavoro autonomo professionale povero? Nulla. Per loro la crisi è finita a giugno. Non è così, ma è questo che pensa il governo, carte alle mano. Lo stesso schema è stato seguito per i rinnovi delle varie casse integrazioni. Nel prossimo decreto rientrerà una nuova e insufficiente proroga di 10 settimane (altre 8 in legge di Bilancio) oltre al «ristoro» di non ancora precisate categorie di micro-imprese nella ristorazione, nel turismo e altro. L’alternativa sarebbe quella indicata dai sindacati: una copertura totale fino alla fine dell’emergenza. Ma Confindustria si oppone, e non accetta il blocco dei licenziamenti collegati alle Cig. Anzi, evoca la libertà di licenziare perché, assurdamente, pensa così di assumere in una crisi che annienta il mercato. In questa paralisi, e con la nuova ondata della pandemia, si continua ad usare la logica del tampone. Non quello per rilevare il contagio, ma quello con cui si spera di bloccare la valanga in arrivo.

Se lasciamo il continente del lavoro incardinato in uno dei pilastri tradizionali – dipendente o autonomo – e ci rivolgiamo a quello dove la precarietà vira verso il lavoro informale e povero allora emergono i mostri. Basta prendere l’ultimo rapporto Caritas, al capitolo «reddito di emergenza». È la misura simbolo del Welfare a scadenza che rivela una consustanziale ignoranza delle politiche sociali e di quelle della riproduzione sociale. Il suo effetto è stato spingere ancora di più nell’invisibilità i potenziali beneficiari a causa dei «paletti» pensati per impedire l’accesso. Su 756 nuclei analizzati dalla Caritas il 30% l’ha ottenuto. La metà rispetto alla indennità per lavoratori domestici o al bonus per gli stagionali. Si tratta di una misura sovrapponibile, e non compensativa, al cosiddetto «reddito di cittadinanza». A cosa è dovuto il «paradosso»? Alla dichiarata volontà del governo di non riformare senza condizioni e in termini universali il «reddito di cittadinanza» e vincolare poveri e precari all’obbligo di un lavoro che non c’è, né ci sarà. Di Maio è arrivato a dire che dovranno mettersi al servizio delle «piccole imprese». Lavori servili in una pandemia.

Alla base del mondo parallelo in cui vive questo esecutivo c’è una pericolosa illusione: l’idea che la crisi seguirà un andamento a «V» del Pil: prima crollo e poi subito ripresa. Sarà invece a «W»: crollo e ripresa dentro una stagnazione. Oppure a «K»: crollo verticale e biforcazione violentissima delle diseguaglianze. «A salute è a prima cosa ma senza soldi non si cantano messe» si è letto l’altra sera a Napoli su uno striscione. Quei «soldi» possono chiamarsi reddito di base incondizionato. Per cominciare.