Dopo la morte di Mikhail Gorbaciov, il 30 agosto scorso, si è parlato molto dell’influenza esercitata dall’ultimo leader sovietico sulla politica e sulla storia della Russia, dell’Urss e del mondo negli anni 1985-1990 della perestrojka (ricostruzione) e della glasnost (trasparenza), dimenticando il ruolo positivo che il segretario generale del Pcus, poi presidente, esercita, sia pur indirettamente, nell’ambito della cultura del proprio immenso paese. Il rapido sviluppo – e la conseguente affermazione mondiale – di quasi tutte le arti del territorio eurasiatico, dopo il 1991, è merito degli autori non più costretti all’esilio, ma operanti in loco, dapprima in semi-clandestinità e quindi, grazie a Gorbaciov, a cielo aperto, magari in zone lontane da Mosca e Leningrado, dove riescono a esprimersi liberamente, sfuggendo alle maglie della censura e aggirando i controlli ancora immischiati nei vecchi diktat stalinisti: ad esempio Tikhon Khrennikov (1913-2007), fin dal 1948 a capo dell’Unione dei Compositori, impedisce fino all’ultimo le pubbliche esecuzioni delle opere di geni assoluti come Arvo Part o Sofia Gubaidulina, da un lato colpevoli, a suo avviso, di formalismo borghese, restando indifferente o contrario di fronte alle novità sperimentali del loro linguaggio sonoro, dall’altro lato responsabili, assieme a Gorbaciov, della distruzione dell’intero patrimonio artistico sovietico.

UNDERGROUND
Lo stesso discorso vale per il nuovo jazz: mentre la tradizione swing e dixieland viene ormai assorbita dal sistema già con l’era Krusciov, al punto che Benny Goodman o Carlo Loffredo compiono acclamatissime tournée nelle principali metropoli, per il Kgb ora il «pericolo numero uno» (e sarà tale fino a Gorbaciov) è il rock (ossia la decadenza corruttrice americana) nelle infinite varianti dal r’n’r al punk. Ambiguo resta invece l’atteggiamento del potere di fronte al free jazz, che una sparuta élite di musicisti russi sta suonando alla propria maniera: dato appunto il seguito minoritario, lo si tollera, lasciandolo sfogare alla periferia dell’impero, dalle vicine repubbliche baltiche alla lontana Siberia, in particolare nella città di Novosibirsk. Ovviamente il free sovietico ha rarissime possibilità di essere inciso, pubblicato e distribuito dalla sola casa discografica esistente (Melodyia), che punta invece su ristampe (modificate) di album di Ella Fitzgerald e Oscar Peterson o sulle novità di orchestrone radiotelevisive statali (paragonabili, nello stile, alle ritmosinfoniche della Rai con Gorni Kramer o Bruno Canfora).
Tuttavia, qualche anno prima di Gorbaciov, succede qualcosa di importante: Leo Feigin, fuoriuscito russo, con un passato da atleta e lessicografo, approda, dopo Israele, a Londra dove lavora alla Bbc e nel 1979 entra in possesso di un nastro – arrivatogli per vie traverse – con le musiche free del Ganelin Trio: è lo spunto e il pretesto per fondare una label indipendente, la Leo Records, che in breve diverrà la maggior divulgatrice del jazz sovietico alternativo: per farsi conoscere e ottenere credibilità, Leo pubblica dapprima un 33 giri della pianista afroamericana Amina Claudine Myers e poi uno del sassofonista Keshavan Maslak di origini ucraine e come terzo, nel 1978, Poco a poco con Vyacheslav Ganelin (pianoforte), Vladimir Chekasin (sassofoni) Vladimir Tarasov (percussioni). «Mentre vivevo in Russia – ricorda Feigin – non c’era la cosiddetta ‘nuova musica’… c’era molto jazz, c’erano tanti musicisti molto bravi che cercavano di imitare gli americani e alcuni di loro, potrei dire, suonavano meglio degli americani, ma per loro era una musica derivativa». E questo spinge Leo a ricercare artisti originali nell’underground jazzistico, in maniere spesso rocambolesche, giovandosi dell’aiuto di amici o conoscenti in viaggio di piacere nell’Urss in transizione, poco prima di Gorbaciov: un’operazione lenta e faticosa che, a posteriori, culmina tra il 2001 e il 2003, in occasione del quarto di secolo della Leo Records con ben sedici cd sugli anni d’oro del nuovo sound sovietico (Golden Years of the Soviet New Jazz). «Un’operazione – ricorda sempre Feigin – molto avventurosa perché prima dovevo trovare i turisti che potessero prendere nastri vuoti, poi i musicisti avrebbero dovuto registrare, quindi trovare altri turisti che non avrebbero avuto paura di portare queste registrazioni fuori dall’Unione Sovietica».
Intanto, pian pianino, sotto Gorbaciov, il nuovo jazz inizia a rivelarsi pubblicamente: significativa in tal senso la tournée compiuta dal sassofonista Mario Schiano in compagnia del Ganelin Trio dall’8 al 12 settembre 1986, come ricorda lui stesso: «Sono stato il primo italiano (il primo ‘moderno’ o il primo solista, visto il precedente della Roman New Orleans Jazz Band, ndr) a essere ufficialmente invitato in Unione Sovietica. Il viaggio è stato organizzato da ‘Italia-Urss’ e dalla corrispondente ‘Urss-Italia’ d’accordo con l’agenzia concertistica di stato, la Gosconzert (…) I concerti vengono accuratamente preparati con largo anticipo e il loro costo è irrisorio. Quanto agli indirizzi musicali, ne ho parlato con il più noto critico russo, Alexey Batasciov, e mi ha confermato che alla base vi è sempre una solidissima preparazione musicale che accomuna tutti i musicisti, mentre le scelte sono quanto mai varie e praticamente coprono l’intero panorama jazzistico, dal tradizionale al free». Di quest’esperienza è testimone l’album A Concert in Moscow (Free Records) a nome Chekasin, Schiano, Ganelin, Tarasov dal vivo a Mosca presso la Dom Turista Concert Hall il 9 settembre 1986 e in parte il successivo Red & Blue (Splasc(h) Records) di Chekasin, Schiano, Tarasov, Tramontana, inciso a Roma presso il Wonderland Studio il 13 ottobre 1988. Ganelin tuttavia è in Italia già quattro anni prima a Campobasso, dove il 7 maggio, con il trio, improvvisa assieme a Schiano, Mark Dresser e Francesco Marini, con riprese video della Rai trasmesse nel giugno 1985 per la rubrica Jazz Club.

FEELING ITALIANO
Con l’Italia il feeling è straordinario, poiché resta memorabile, nel 1989, la performance del compianto Sergej Kuryokhin (1955-1996) a Bolzano nel dirigere i Pop Mechanics, messisi in mostra qualche tempo prima al festival di Moers (Germania), all’epoca il maggior appuntamento per le neoavanguardie radicali. E il popolo del jazz in Italia s’innamorerà presto anche dell’immaginifica voce, sospesa tra folk e astrattismo, di Sainkho Namtchylak, proveniente da Tuva (Siberia), per breve tempo nel gruppo Tri-O, che, però senza di lei, nel 1990 si esibisce negli Stati Uniti suscitando gli entusiasmi di Dana Thomas del Washington Post su cui il 29 luglio scrive: «Il jazz può essere un genere di origine americana, ma proprio come sta accadendo con il rock’n’roll, l’Unione Sovietica lo ha abbracciato, assorbito e ne ha inventato una versione d’avanguardia che è distinta e decisamente non americana. Il suono prodotto dal gruppo moscovita Trio-O – Alexander Alexandrov, Arcady Kirichenko e Sergei Letov – è ipnotico. I corni suonano con toni bassi e calmi mentre Kirichenko geme e canta in una non-lingua; le trombe hanno stridenti note acute mentre il contrabbasso entra in gioco quasi come un treno in arrivo. È lunatico e misterioso. Uno spaccato della scena artistica sotterranea di Mosca «pre-perestrojka». Infatti «prima della perestrojka – racconta Alexandrov – non avevamo la possibilità di andare all’estero o suonare molto a Mosca, ma ora ci esibiamo nel programma televisivo sovietico Look – una delle trasmissioni più popolari – e lavoriamo nei teatri e recitiamo in altri paesi».
E come loro il jazz dell’epoca Gorbaciov – con i solisti Igor Butman, Vyacheslav Guyvoronski, Oleg Molokoedov, Valentina Pomomareva, Anatoly Vapirov, Vladimir Volkov, Petras Vysniauskas, e con i gruppi Arkhangelsk Ensemble, Leningrad Duo, Moscow Composers Orchestra, Vilnius Quartet, quasi tutti su Leo Records – risulta quasi una presenza assidua sui palcoscenici internazionali, grazie a una creatività irripetibile, che, nel dopo Gorbaciov, da Eltsin a Putin, con il jazz russo di oggi, è ben lontana dal riaffermare tale singolarità, per colpa di un «ritorno all’ordine» con un mainstream ridotto a puro accademismo o banale divertissement.