Per chi non è conservatore, in linea di principio le riforme sono generalmente una buona cosa. Però quest’osservazione, in qualche caso concreto, si rivela un pregiudizio che può distorcere un’analisi equilibrata. Per esempio, l’impianto della Costituzione della Repubblica italiana del 1948, meritava certamente qualche modifica minore, come succede a tutte la carte fondamentali dello stato e specialmente a quelle nate in momenti storici molto particolari. Però la nostra Costituzione era il risultato di una collaborazione dialettica di forze politiche molto diverse fra loro: si era raggiunto un punto di convergenza, mentre l’Assemblea che aveva fatto tutto il lavoro preparatorio era l’espressione di un voto cui aveva partecipato l’89,8 per cento degli elettori. Alle elezioni che hanno eletto il parlamento attualmente in carica ha votato invece il 75 per cento degli aventi diritto, e il partito di Renzi, il Pd, ha preso solo il 29,55 per cento dei voti: mica tanti. Non solo, ma si è perfino votato con una legge che la Corte costituzionale nel 2014 ha dichiarato incostituzionale.

Ora si cambia tutto, e lo si fa sulla base di questi numeri striminziti; e lo si fa senza raggiungere neppure lontanamente quella convergenza fra forze politiche diverse che ci fu quando la Costituzione venne approvata. Dal punto di vista formale, questa è un’operazione politica del premier, Matteo Renzi: non vogliamo avere pregiudizi nei suoi confronti, ma dobbiamo ricordarci bene che egli, alle sue spalle, non ha nessuno dei numeri che abbiamo ricordato. A votare alle ultime elezioni, quelle del 24 febbraio 2013, si è rimasti lontani dai quei numeri. E il riformatore Renzi, in quelle elezioni, non è stato eletto, perché non era nemmeno candidato. Adesso è diventato presidente del consiglio e sta cambiando tutto.

Da un punto di vista legale, un po’ causidico, potrebbe farlo. Però, per smantellare un sistema con una vera autorità politica, ci sarebbero voluti dei numeri ben diversi; e per ragioni di credibilità istituzionale, il protagonista avrebbe dovuto venir fuori da un processo di voto democratico. Sembrano pignolerie? Se riflettiamo bene, non lo sono affatto. Le riforme di Renzi hanno la caratteristica della novità assoluta, perché hanno visto l’abolizione di un organo costituzionale operata col consenso dei suoi stessi componenti: mi pare che non ci siano precedenti storici, da nessuna parte del mondo, di una simile eutanasia istituzionale.
Ma vogliamo vedere anche chi è l’artefice, anzi il vero vincitore di questa stranissima partita? Vincitore è il personaggio che in tutta evidenza ha ispirato e sostenuto fino all’ultimo l’intera operazione: il presidente Giorgio Napolitano. Non più in carica al vertice della Repubblica, egli resta però uno dei pochissimi, forse l’unico che in Italia sia ancora capace di fare politica alla grande. Perciò complimenti a lui: complimenti davvero meritati. Però, nominando il presidente emerito, vengono in mente anche certi viaggi suoi in Germania, nel primo mandato e nel secondo, quasi fino alla scadenza. Sarà una coincidenza, ma queste nostre radicali riforme che vedono la sterilizzazione del senato e la sua trasformazione in organo non più direttamente elettivo, in Germania sono sempre piaciute. Così come piacciono, in Germania e nel sistema di potere che è al vertice della Ue – e che è strettamente non elettivo – tutte quelle trasformazioni istituzionali che rendono il voto del popolo sempre più lontano dal potere effettivo degli stati.