Più volte la musica ha accompagnato le grandi manifestazioni di massa che si sono svolte a Washington sulla spianata del Lincoln Memorial, tra l’obelisco dedicato a George Washington, i prati che costeggiano lo specchio d’acqua della Reflecting Pool, le arterie della Pennsylvania e della Constitution Avenue, la scalinata che porta verso il Campidoglio.

L’EPISODIO più significativo rimane quello della Marcia per i diritti civili del 28 agosto 1963, una giornata scandita da uno storico discorso di Martin Luther King e nella quale la musica ha assunto un ruolo centrale per la biografia politica di una generazione. Allora cantarono fra gli altri Odetta, voce iconica del movimento per i diritti civili, Josh White, Lonnie Sattin, gli SNCC Freedom Singers di Albany, il folksinger afroamericano Len Chandler e una serie di artisti bianchi anche loro di provenienza folk, da Peter, Paul & Mary a Bob Dylan e a Joan Baez, alla quale si deve la canzone divenuta poi l’inno di quel giorno, We Shall Overcome.

Oggi non siamo più in quel 1963 che appariva pieno di speranze e di aperture. Il 6 gennaio 2021 è stato anzi uno dei giorni più bui della storia americana e la folla che ha fatto irruzione nel tempio del suo sistema democratico non aveva nessun inno da intonare, nessuna musica a dare il segno di una proiezione nel futuro e di una festa collettiva. A occupare il nostro spazio sonoro sono stati semmai gli slogan, le grida, il rumore dell’effrazione nelle sale del Campidoglio, lo strazio del dolore di uno degli agenti schierati a guardia del Senato schiacciato fra i battenti di una porta dalla spinta della rivolta, l’eco dei colpi delle armi da fuoco.

Eppure, mentre era ancora in corso l’assalto, il commento di una vecchia canzone si è fatto avanti nel mondo della comunicazione in un video postato dal figlio del Presidente in carica, Don Trump Jr., poco prima che il padre prendesse la parola per aizzare la folla dei suoi seguaci a dirigersi verso il Campidoglio e impedire con la forza la ratifica dell’elezione di Joe Biden.

LA CANZONE è Gloria di Umberto Tozzi, un brano del 1979 che ha ricevuto la sua definitiva consacrazione internazionale tre anni dopo, proprio negli Stati Uniti, grazie a una versione inglese cantata da Laura Branigan, la stessa che si ascolta nel video del giovane Trump. Nel 1983, grazie anche al ruolo che le diede Adrian Lyne nel film Flashdance, Gloria scalò le classifiche americane rimanendo ai primissimi posti per mesi. Diventò un tormentone mondiale, con una serie di cover di cui si perde il conto.

TOZZI in quegli anni aveva indovinato più di un successo, ma Gloria è stata l’unica a incontrare un pubblico così ampio e a durare così tanto nel tempo, al punto che la sua apparizione in quel contesto ci ha colto di sorpresa come una cosa insieme familiare ed estranea. Familiare perché molto conosciuta e perché da sempre associata a una forma di intrattenimento leggero, ballabile, persino irriverente date le sfumature erotiche e autoerotiche di un testo scorrevole di cui si dimenticano facilmente le parole mentre rimane fissata nella memoria come un mantra la ripetizione del titolo, del nome, cantato su tre note che si possono intonare in coro. Estranea perché incongrua con quel che stava per accadere, sul palco del discorso quasi-ex-presidenziale e poi verso Capitol Hill: il contrasto fra la leggerezza della musica e la gravità del momento non poteva essere più estremo.

Due giorni dopo i fatti, dal suo account dello stesso social media che nel frattempo aveva oscurato quello di Donald Trump, Twitter, Umberto Tozzi si è rivolto ai suoi fan per prendere le distanze dall’uso della sua canzone in quel contesto: «Mi hanno mostrato un video in cui una delle mie canzoni più famose è stata usata durante azioni di inaudita violenza, fisica e verbale, da Donald Trump e dal suo staff. Mi dissocio e sono pronto in qualità di autore a difendere le origini e i principi di questa canzone».

UN’AFFERMAZIONE condivisibile, per quanto il destino di una canzone non sia controllabile dal suo autore neppure quando dovesse diventare il simbolo di qualcosa che detesta. Usi di questo genere sono anzi numerosi e a volte, per esempio nel cinema, l’apparizione incongrua di una musica in contrasto con quel che si vede serve proprio a rendere più straniante una scena, come quando Singin’ in the Rain viene cantata in uno dei momenti più violenti di Arancia meccanica. Nel suo messaggio Tozzi esprimeva comunque quello che in molti avevano pensato nel momento in cui Gloria si era trasformata nella colonna sonora involontaria delle trasmissioni video di un atto di forza reale, non circoscritto nell’ambito della finzione, e quando tutta la sua levità era sembrata mutarsi in un veicolo di arroganza, razzismo, autoritarismo.

Ma in effetti, al di là del caso che avrà fissato in video soltanto una delle canzoni trasmesse quel giorno alla folla in attesa di ascoltare il suo leader, si possono evidenziare diversi elementi legati alla forza perturbante di quella musica in quelle immagini. Anzitutto il titolo, Gloria, un nome che inevitabilmente si associa ad altre due forme di riconoscimento, altri due significati nessuno dei quali è estraneo ai sentimenti delle persone scatenate verso l’occupazione del Campidoglio.

Un significato politico al quale Trump, nel suo discorso, ha dato un’enfasi speciale, quando ha detto «centinaia di migliaia di patrioti americani sono attivamente interessati all’onestà delle nostre elezioni e all’integrità della nostra gloriosa Repubblica», lasciando intendere che marciare verso il Parlamento e manifestare tutta la propria forza rendesse partecipi di quella gloria. E un significato religioso, meglio sarebbe dire una risonanza religiosa, a cui gran parte di quella folla di bianchi venuti dall’America profonda, nutriti di suprematismo razziale e di cospirazionismo economico-politico, non era affatto indifferente.

Sul «New York Times», nei giorni seguenti, è apparso un commento che sottolineava proprio la convergenza politica e culturale tra i Cristiani Evangelici bianchi e l’estremismo di Trump. Nella canzone di Umberto Tozzi un coro ripete il nome «Gloria» sul canto del solista, le cui parole variano da lingua a lingua, in una forma musicale che somiglia molto a quella di un gospel. Per questo, nell’eccitazione della trance collettiva, Gloria poteva risuonare come una specie di gospel bianco, per i bianchi, un vettore di aggregazione per una comunità che si apprestava a compiere un’azione da cui poteva aspettarsi un duplice premio, politico e spirituale.

SE LA SI VEDE in questo modo, niente come Gloria poteva funzionare a questo scopo e nessun’altra canzone, catturata al suo posto in quel video, poteva risultare più adatta e sconcertante. Suo malgrado, insomma, Gloria è un’immagine perfetta di quel momento ebbro e raccapricciante, è una fotografia che per contrasto ha messo a nudo la miseria e il fascismo del castello di menzogne su cui è retta la retorica di Donald Trump.

Gloria rimane impressa com’è sempre rimasta e proprio per questo riassume in un lampo tutto quello che dovevamo capire, e che abbiamo capito anche grazie a lei. Il suo effetto è più forte di Singin’ in the Rain sia perché è entrata in un evento del mondo reale, sia perché si è prestata per le sue stesse caratteristiche interne, fino a quel momento insospettate, a una forma di manipolazione molto simile a quella che Trump voleva imporre ai dati elettorali. Se una frode nelle elezioni non c’è stata, ce n’è stata una grandissima sulla comunicazione da lui ripetuta con una tale ossessione da incitare un’azione golpista.

La povera Gloria ha messo a nudo tutto questo facendo intravedere come l’impalcatura su cui si è retta la violenza fosse fatta di niente, di parole vuote da ripetere a oltranza, come se la frode musicale applicata a un ritornello così semplice fosse stata un evidenziatore involontario della realtà, tanto più vivido quanto più marginale.