La fiducia numero 47 chiesta sulla legge di stabilità dal governo Renzi, che ha ormai superato quel tetto di Berlusconi a suo tempo denunciato con giusta indignazione dal Pd, è passata con 164 voti a favore, 116 contro e due astenuti: un traguardo ragguardevole, tenendo conto che la maggioranza aveva perso qualche pezzo per strada e non poteva contare sul supporto dell’Ala verdiniana. Segno che il lavoro di Renzi sull’esercito di senatori sciolti oppure riuniti in componenti minime del gruppo misto o del Gal o su frange dei gruppuscoli comparsi in seguito alla deflagrazione di Fi sta dando i suoi positivi effetti. Anche se, pochi minuti dopo, quando si è trattato di votare la variazione di bilancio, senza più fiducia, i sì sono scesi a 154: sufficienti per l’approvazione ma decisamente sotto la maggioranza assoluta.

I dissidenti centristi hanno votato in ordine sparso: due, l’ex ministro Quagliariello e Giovanardi si sono astenuti, uno, Andrea Augello, ha votato contro. Essendo l’astensione a palazzo Madama considerata voto contrario, la diversificazione è poco significativa. I dissidenti sono ancora decisi a lasciare Alfano entro novembre, per formare una componente nel gruppo misto e poi unirsi con i fuoriusciti leghisti vicini a Flavio Tosi. I verdiniani rivendicano coerenza: «Voteremo solo a favore delle riforme, ma restando all’opposizione». In realtà è più probabile che a convincerli sia stata la bocciatura dei loro emendamenti.

Il maxiemendamento sul quale era stata posta la fiducia riprendeva nella quasi totalità il testo licenziato mercoledì notte dalla commissione Bilancio, a sua volta molto vicino a quello presentato dal governo: in soldoni, lo scarto è di soli 600 milioni. Per Tonini, profeta del renzianesimo nel Pd e presidente della commissione, ce ne è a sufficienza per confermare che il Parlamento non ha perso ruolo e potere: «E’ stata confermata la prassi, che sta diventando convenzione costituzionale, per la quale il governo pone la fiducia su un testo approvato dalla Bilancio e dunque non solo governativo». Tanto varrebbe, per convenzione costituzionale, non convocare nemmeno l’aula: il tempo è prezioso.

Pur con le sue lievi modifiche, il testo che arriva ora alla Camera indica con massima chiarezza quali sono le priorità di questo governo. Ci sono 2,7 milioni per il Vaticano, a fini di «radiodiffusione». Altri 25 per le scuole private, cioè nella stragrande maggioranza dei casi cattoliche, fondi messi al riparo dal patto di stabilità interno. Non c’è la proroga del peraltro esile ammortizzatore sociale previsto dal Jobs Act per i Co.Co.Co., in vigore nel 2015. Mazzata anche per le cooperative sociali: l’aliquota Iva passerà dal 4 al 5%.Occupandosi di assistenza sociale, va da sé che non servano a molto e siano dunque destinate a essere spremute.

Formalmente l’abrogazione della tassa sulla casa, quella che manda in bestia i rigoristi di Bruxelles ma che Renzi considera la chiave magica per vincere le prossime elezioni, non è cambiata molto. L’eliminazione della Tasi estesa a chi lascia la prima e unica casa di proprietà a figli o genitori in comodato d’uso è soggetta a tale e tante limitazioni da apparire inoffensiva. Invece non è così. E’ vero che i contratti vanno registrati, ma per chi decida di affittare la casa pur abitando in un’altra, nel qual caso la casa di proprietà si considera seconda e dunque soggetta alla Tasi, sarà facilissimo aggirare la norma.

Ma il vero buco nero è il Sud. Lo ammette lo stesso Tonini, riconoscendo che «sono necessari maggiori investimenti per il lavoro e per il Sud». Ma se il governo avesse davvero voluto muoversi in questa direzione avrebbe inserito alcune misure a favore del Mezzogiorno, affidando poi alla Camera il compito di dettagliarle. Invece non c’è niente. La lista di quel che per Renzi e per il suo governo non è prioritario parla da sola: il Sud, i precari, le cooperative sociali, i malati…