Il Congo in tasca, potrebbe iniziare così la soap opera di un Paese con cui tutti abbiamo a che fare perché appunto lo teniamo in tasca. Nei nostri pantaloni c’è un pezzo di quel paese, il coltan che si trova dentro i nostri apparecchi elettronici: smartphone e tablet in primis, ma anche batterie delle auto elettriche, aerei, dispositivi elettronici e medici, protesi e lenti ottiche.

Sarebbe una bella notizia, se non fosse che «esiste una chiara associazione tra estrazione e conflitto», secondo il recente rapporto Global Supply Chains of Coltan, redatto da un gruppo di ricercatori di Yale. La guerra e le violenze nell’est del Congo, in particolare, sono strettamente legate all’estrazione mineraria, che «è in gran parte controllata da gruppi paramilitari e i cui profitti hanno sostanzialmente alimentato la guerra civile nel paese».

Le Nazioni unite hanno pubblicato una serie di rapporti sul coltan come fonte di finanziamento dei conflitti nella Repubblica democratica del Congo e ha definito l’acquisto di coltan da parte delle società internazionali «il motore del conflitto in Congo». Si segnalano anche altri effetti indiretti dell’estrazione quali l’uso del lavoro minorile, sfruttamento e degrado ambientale.

Ne è conseguito un dibattito internazionale sull’opportunità di ridurre il commercio dal Congo o su come individuare processi che portino a un coltan «pulito», ma seppure si segnalino miglioramenti la situazione è ancora insoddisfacente. Per questo John Mpaliza si è messo in testa di sensibilizzare opinione pubblica e istituzioni internazionali perché si metta fine alle violenze in Congo. Da una decina d’anni si è messo in marcia, passa di città in città incontrando cittadini e studenti a cui spiega i nessi locali e internazionali della guerra nel suo paese da cui è fuggito nel 1991 dopo essere stato arrestato dall’allora regime del presidente Mobutu.

Per una serie di vicende è arrivato in Italia, studiava in Algeria ma il giorno del rientro, il 30 giugno 1992, il presidente Mohammed Boudiaf venne ucciso e iniziarono una serie di violenze che lo indussero a restare qui. Dopo un po’ di lavori da «immigrato africano» ha ripreso gli studi, si è laureato in ingegneria informatica e ha trovato lavoro presso il Comune di Reggio Emilia, ma nel 2014 ha deciso di licenziarsi per dedicarsi a tempo pieno alla pace nel Congo. Ora è in marcia da Reggio Emilia a Ginevra per consegnare alle Nazioni unite una proposta legislativa che consentirebbe una trasparenza del processo estrattivo del coltan. Vi è già negli Stati uniti il Dodd-Frank Act, che prevede l’obbligo di certificazione di provenienza, ma è sistematicamente aggirata attraverso un processo che porta le aziende ad acquistare il minerale in Ruanda. Il coltan una volta passato il confine viene certificato come se fosse estratto localmente. Infatti, la maggior parte del coltan venduto nel mondo viene dal Ruanda.

Si dice che dove finisce la logica inizia il Congo, o forse dove inizia il profitto finisce il Congo, ma comunque dopo troverete un uomo in marcia, se altri lo seguiranno la pace sarà possibile.