Per i difensori della terra, dell’acqua e delle foreste l’America latina è ancora la regione più pericolosa al mondo. In base all’ultimo rapporto dell’osservatorio Global Witness, infatti, il 75% degli almeno 227 omicidi avvenuti nel 2020 – 4 ogni settimana, il numero più alto di sempre – si registra nel subcontinente latinoamericano. E 7 dei primi 10 paesi della lista si trovano qui.

Il paese in cui costa più cara la lotta per la tutela del territorio e delle sue risorse resta, anche nel 2020, la Colombia, con 65 omicidi (uno in più dell’anno precedente), quasi il 30% del totale.

Al secondo posto della lista sale il Messico, il quale passa dai 18 leader assassinati nel 2019 ai 30 del 2020, scalzando così le Filippine, con 29.

Seguono il Brasile con 20 (erano 24 l’anno prima), l’Honduras con 17 (più 3) e poi la Repubblica Democratica del Congo (15), il Guatemala (13), il Nicaragua (12), il Perù (6).

E tra tutti gli attivisti ambientali sono gli indigeni a pagare un prezzo più alto, con oltre un assassinio su tre, benché le comunità indigene costituiscano solo il 5% della popolazione mondiale.

LE CAUSE DEGLI OMICIDI – tutti, tranne uno, avvenuti nel Sud del mondo – sono quelle di sempre: deforestazione, estrattivismo minerario, agribusiness, centrali idroelettriche e altre infrastrutture. Il tutto in un quadro reso sempre più grave dall’effetto combinato della crisi climatica, degli incendi boschivi, della siccità che distrugge i terreni agricoli e delle inondazioni che provocano migliaia di morti.

Ma sul banco degli imputati si trova in particolare il modello estrattivista, che, denuncia il rapporto, «privilegia in modo schiacciante il profitto rispetto ai diritti umani e all’ambiente». È sotto la sua ombra che le imprese operano «con quasi totale impunità», spesso e volentieri con la complicità dei governi.