«Gli attentati di ieri a Kabul hanno colpito un ingresso dell’aeroporto, davanti a un hotel dove le persone trascorrono la notte in attesa di lasciare il paese. Il messaggio è chiaro: i terroristi vogliono impedire agli afghani di andarsene. Ora i Talebani vorrebbero farci credere che l’Isis sia un loro nemico, scaricando su altri la responsabilità dei morti e dei feriti. Ma non può essere vero: hanno gli stessi interessi, obiettivi, finanziamenti e armi. Come in un film poliziesco americano, Talebani e Isis recitano il ruolo del poliziotto buono e del poliziotto cattivo». A commentare l’attualità è il famoso scrittore afghano Atiq Rahimi.

CHE, SUL RITIRO delle truppe della coalizione, accusa «gli occidentali, responsabili del dramma del mio popolo. Gli statunitensi non hanno voluto andare fino in fondo e sradicare completamente i Talebani dopo l’11 settembre: li hanno lasciati lì, al loro posto. E anziché ricostruire una nazione con un’identità forte come l’Afghanistan, che sarebbe potuto diventare un esempio per gli altri paesi della regione, nel marzo 2003 Washington ha preferito invadere l’Iraq. Così facendo, ha scatenato ulteriore violenza e permesso al jihadismo di ricompattarsi per tornare poi sulla scena politica e imporsi. Dopo quella guerra, i terroristi sono tornati tutti in Pakistan, si sono riorganizzati e hanno acquisito nuove armi. E questo è il risultato. Gli occidentali hanno il dovere morale di far fronte alle proprie responsabilità».

ATIQ RAHIMI È NATO a Kabul nel 1962 e la sua lingua madre è il darì, la versione afgana del persiano. In Italia, suoi libri sono dati alle stampe da Einaudi. Risalgono al 2002 i romanzi Le mille case del sogno e del terrore (pp. 144, €11) e Terra e cenere (pp. 86, €7,50), entrambi scritti in persiano e tradotti in italiano dall’attore iraniano Babak Karimi che ha vissuto a lungo a Roma. Vincitore del premio Goncourt, il romanzo Pietra di pazienza è stato scritto in francese (trad. di Yasmina Melaouah, 2009, pp. 110, €17) perché è a Parigi che Rahimi vive ormai da 35 anni. Il film struggente che ne è stato tratto, Come pietra paziente, ha protagonista la brava attrice iraniana Golshifteh Farahani. L’ultimo libro di Rahimi, sempre per Einaudi, è I portatori d’acqua (trad. di Yasmina Melaouah, 2020, pp. 192, €18,50). In questi decenni, lo scrittore si è impegnato «a favore della libertà di espressione, della libertà in politica e dell’integrazione delle donne nel sistema scolastico».

A PROPOSITO di esportazione della democrazia in Afghanistan, Rahimi sostiene di «non essere contrario, anzi, sono stato tra i primi a difendere l’intervento occidentale anche se non era questione di esportare la democrazia: nel 1963 l’Afghanistan era una monarchia costituzionale, c’erano tre donne ministre e molte altre ricoprivano la carica di deputate. Il mio paese aveva già intrapreso un processo democratico. Non auspicavo un intervento militare, quanto piuttosto un contributo al miglioramento del sistema educativo e del mondo della cultura perché funzionali alla ricostruzione della società afghana che in questi 40 anni è stata colpita duramente».
Con Atiq Rahimi ci siamo sentiti per mail e, senza esitare, mi ha chiesto di chiamarlo: «Sono impegnato con le liste di afghani da evacuare. Quando gli americani hanno annunciato il ritiro dall’Afghanistan ho scritto una lettera aperta per salvare gli artisti. Una lettera sottoscritta da oltre cento celebrità del cinema, attrici come Juliette Binoche, Laetitia Casta, Irène Jacob e Chiara Mastroianni. Il presidente francese Macron mi ha subito convocato. Per ora siamo riusciti a far salire sugli aerei francesi 270 tra scrittori, poeti, registi, attori, cantanti, presentatrici e presentatori. Abbiamo dato priorità alle donne e alle ragazze, ma hanno difficoltà ad avvicinarsi all’aeroporto se non sono accompagnate da un uomo, anche perché spesso hanno con sé bambini piccoli e trascorrere la notte all’aperto, fuori dai cancelli, è troppo pericoloso».

LA LISTA COMPILATA da Atiq Rahimi conta 400 artisti. Se per tutti gli altri paesi la condizione per entrare nella lista della salvezza è aver collaborato, all’Eliseo non importa se gli artisti hanno lavorato con i francesi. E se gli Stati uniti permettono solo l’evacuazione dei famigliari stretti (partner e figli), «i francesi accolgono famiglie allargate di anche otto persone, cognati inclusi. Se non hanno il passaporto, c’è una deroga e vengono fatti salire comunque sull’aereo. L’obiettivo è portarli fuori dall’inferno dei Talebani, di certo arricchiranno il panorama culturale francese. Così facendo, salviamo quell’identità culturale dell’Afghanistan così tanto estranea ai Talebani che vent’anni fa avevano distrutto i Buddha di Bamyan e messo a ferro e fuoco l’antica città di Herat, nota per i suoi miniaturisti e i suoi mistici». Per aiutare gli artisti afghani arrivati in Francia, o che stanno per arrivare, Rahimi ha mosso i suoi contatti: «Ho telefonato ad Alberto Barbera, mi sta aiutando a contattare personalità del cinema per raccogliere fondi».
Per Rahimi sono giorni frenetici: «Ieri sera mi sono coricato, stravolto dalla stanchezza. Al risveglio, ho trovato 670 messaggi di afghani disperati, in lacrime». Viene da pensare che cercando di far partire centinaia di artisti, nel senso ampio del termine, si rischia di trasferire all’estero l’intera società civile afghana.

«NON È DEL TUTTO VERO, in Afghanistan ci sono anche persone che non temono il governo dei Talebani e preferiscono restare. Può sembrare strano, ma è vero: ci sono medici che non vogliono abbandonare il paese. Ammiro il loro coraggio. Sul quotidiano francese Le Figaro ho letto di un professore che ha creato una sua scuola. Sono forme di resistenza culturale. A preoccuparmi tanto sono però le donne, sempre vittime dei conflitti, anche quando l’obiettivo è portare la pace».