«Nel nostro partito non ci sono né razzisti né neoliberali». Un’affermazione apparentemente ovvia, quella di Katja Kipping, dalla tribuna del congresso della Linke che si chiude oggi a Lipsia. Solo apparentemente, però. Il cuore delle assise del principale partito della sinistra tedesca di opposizione sta in una controversia che lo sta portando al limite della lacerazione. Da una parte, i seguaci dei due segretari Kipping e Bernd Riexinger (più Gregor Gysi, attualmente numero uno della Sinistra europea), e dall’altra i sostenitori della capogruppo al parlamento federale Sahra Wagenknecht. Nella rappresentazione degli ultrà dei due schieramenti, rispettivamente: i «neoliberali» contro i «razzisti». Definizioni diffamatorie figlie delle diverse posizioni sul tema-chiave dei migranti. In sintesi: per i segretari, la Linke non deve rinunciare alla parola d’ordine delle frontiere aperte per tutti, per la capogruppo l’apertura incondizionata vale solo per i perseguitati che chiedono asilo.

Una spaccatura interna frutto dell’onda lunga della crisi dei rifugiati che investì la Germania – e la cancelliera Angela Merkel – nel 2015 e, soprattutto, dell’ascesa della destra nazionalista di Alternative für Deutschland (Afd), capace di mietere consensi anche in quell’elettorato popolare dei Länder dell’Est bacino della Linke. Per la carismatica capogruppo Wagenknecht – e per l’ancora influente ex leader Oskar Lafontaine – il partito deve correggere linea: l’enfasi no-borders manda i più anziani, i poveri e i disoccupati nelle braccia dell’Afd. L’attuale Linke – questa è l’accusa – piace ai giovani alternativi e di classe media dei centri urbani, e il partito si sta trasformando in una sorta di riedizione dei Verdi. Secondo Kipping non è così: «Se osservo i nostri giovani nuovi iscritti, non vedo hipster, non vedo nuovi verdi. Io vedo persone che con meravigliosa naturalezza sanno che la solidarietà verso i profughi e la difesa dello stato sociale sono una cosa sola. La Linke del XXI secolo ha bisogno della generazione del XXI secolo».

Nel suo discorso Kipping ha teso una mano a Wagenknecht, ma ha attaccato Lafontaine (che di Wagenknecht è anche compagno di vita): «Se il partito assume democraticamente una posizione, lui non la metta costantemente in discussione sui media». Posizione che ieri i delegati hanno assunto, approvando un documento congressuale in cui è scritto: lotta alle cause delle migrazioni (guerre, export di armi, sfruttamento), «corridoi umanitari sicuri, frontiere aperte e un sistema di accoglienza e distribuzione dei profughi in Europa rispettoso della dignità umana», e «diritti sociali per tutti». Sul punto simbolico delle frontiere, la formulazione è volutamente ambigua: non si dice per chi debbano essere aperte. Tutti o no? Un’indeterminatezza che ha permesso l’adozione quasi unanime della mozione.

Il passaggio anti-Lafontaine del discorso di Kipping non è andato giù agli avversari interni. Si spiega così la percentuale bassa con la quale la co-segretaria ieri è stata confermata nel suo incarico: appena il 64,5%, dieci punti in meno che alle assise precedenti. Meglio ha fatto Riexinger, ottenendo il 73,8%. Non c’erano candidati alternativi, la rielezione di entrambi era scontata, il dato politico stava tutto nella percentuale del loro consenso: e da ieri è più evidente che il clima nel partito è ancora lontano dal rasserenarsi. Lo dimostra anche l’unica situazione in cui i delegati hanno dovuto scegliere tra due persone riconducibili ciascuna ai due diversi gruppi: l’elezione del segretario organizzativo, il numero tre nella gerarchia interna. In uno scrutinio al cardiopalma si è imposto l’uomo di Kipping e Riexinger per soli 3 voti di scarto (su 550 totali).

Molto importante sarà l’intervento che farà questa mattina Wagenknecht: l’attesa è massima per capire se prevarranno i toni concilianti o quelli da battaglia. E soprattutto per comprendere meglio cosa la capogruppo intenda quando vagheggia della creazione di un «movimento di sinistra» che accomuni militanti della Linke a delusi del Partito socialdemocratico (Spd) e dei Verdi. Nelle intenzioni della capogruppo è una strategia per costruire una maggioranza alternativa alla grande coalizione fra democristiani (Cdu/Csu) e Spd che attualmente governa il Paese. C’è chi teme, invece, possa significare né più né meno che una «classica» scissione. Se fosse così, difficile immaginare che per la sinistra tedesca, ed europea, possa essere un bene.