Lo scorso 6 dicembre Joe Biden si è recato a Phoenix per il taglio del nastro del cantiere dove verrà costruita una mega factory della TSMC, il maggiore produttore mondiale di semiconduttori. Davanti alle telecamere, il presidente ha elogiato l’investimento di 40 miliardi di dollari – il più grande di sempre per un impianto industriale in Arizona – e i 10mila posti di lavoro che è destinato a creare.

Ma l’importanza dell’operazione deriva soprattutto da quello che sfornerà questo stabilimento – il primo di due di prossima costruzione. I circuiti integrati stanno rapidamente diventando tra i beni più strategici dell’economia globale come evidenziato dalle interruzioni nelle forniture provocate dalle fluttuazioni nel supply chain durante la pandemia.

LA CARENZA improvvisa di microchip ha provocato reazioni a catena nelle più disparate filiere produttive, come quella delle automobili, impossibili da costruire ormai senza migliaia di chip (un’auto ne può contenere fino a tremila).

Nell’economia tecno-dipendente i microcircuiti sono irrinunciabili componenti di base per la produzione di praticamente ogni cosa, dagli elettrodomestici all’elettronica, infrastruttura e componentistica militare avanzata. Non casualmente alla cerimonia di Phoenix ha preso la parola anche Tim Cook, ad di Apple, per encomiare le «nuove radici» messe in America dalla TSMC, fornitrice tra l’altro di circuiti a Nvidia, il marchio di processori grafici utilizzati nei computer di Cupertino.

Le fabbriche hanno fame insaziabile di microcomponenti, in Occidente come altrove e in particolar modo in Cina, la «fabbrica del mondo» è afflitta da penuria cronica di chip. La Cina produce internamente appena il 16% del fabbisogno di circuiti e spende per importarli più che per acquistare petrolio.

Dopo essere stati messi a punto negli anni ’70 (dall’ingegnere italiano Federico Faggin) i circuiti sono diventati strumento di predominio tecnologico americano anche se la loro produzione altamente specializzata si è andata concentrando in Asia orientale. Vista l’importanza strategica e di «sicurezza nazionale», l’amministrazione Biden ha reso ora prioritario rilocalizzare la produzione in America.

IL BOTTINO portato a casa da Biden&co. con l’impianto in Arizona è stato ancora più significativo: la TSMC è taiwanese e le future operazioni americane possono intendersi come uno schiaffo al rivale che su quell’isola – e sulle sue capacità tecnologiche – rivendica sovranità.

Se i circuiti integrati sono, come ha scritto Chris Miller nel suo libro Chip War, il «nuovo petrolio», anche le politiche messe in campo per assicurarsene scorte e controllo strategico somigliano sempre più alle dinamiche attorno ai mercati degli idrocarburi. E caratterizzano sempre di più la concorrenza prossima ventura tra i due pretendenti all’egemonia economica globale.

La Cina ha messo in campo un ambizioso programma per colmare il disavanzo con un pacchetto di sostegno del valore di mille miliardi di yuan (143 miliardi di dollari) per incentivare la propria industria dei semiconduttori. Ma, anche con il piano di marcia stabilito dal governo, arriverà nel 2026 a produrre prevedibilmente appena il 21% del fabbisogno nazionale, pari al 6,6% della produzione mondiale di chip.

Negli Usa intanto, la scorsa estate, è stato promulgato il Chips and Science Act, un pacchetto da 52 miliardi di dollari in incentivi federali alla produzione nazionale di circuiti integrati fortemente voluto da Biden come parte del progetto di «reindustrializzazione» tecnologica tesa a diminuire la dipendenza da fornitori esteri.

È significativa la clausola compresa nella legge che proibisce a chiunque usufruisca degli incentivi di intraprendere attività che «possano avvantaggiare lo sviluppo del settore in Cina». Tutto parte insomma di un’aggressiva strategia di «contenimento tecnologico» già collaudata sotto Trump contro il 5G della Huawei. Sempre in quest’ottica dalla scorsa settimana una nuova direttiva vieta ai lavoratori statali di istallare la cinese Tik Tok sui propri dispositivi di lavoro.

MENTRE PECHINO denuncia le manovre restrittive di Washington all’Organizzazione mondiale del commercio, il ministero del commercio Usa ha appena annunciato una lista di proscrizione contente 36 nominativi di società cinesi produttrici di chip, fra cui Cambricon e Yangtze Memory, off limits per forniture americane onde «limitare i tentativi della Cina di ottenere e sfruttare tecnologie avanzate, inclusa l’intelligenza artificiale, per i suoi sforzi di modernizzazione militare e violazioni dei diritti umani».

Quest’ultima dicitura per rafforzare la narrazione della contesa tecnologica in termini di lotta titanica tra democrazia e autocrazie. Simili obiettivi ha l’embargo tech contro la Russia, con un’attenzione particolare a degradarne la capacità militare.

L’accordo con TSMC in Arizona non è che un primo passo, per avere un effetto misurabile dovranno essere «portate a casa» simili iniziative anche con altri grandi produttori come Intel e Samsung. Tutte avvisaglie della volontà politica di intraprendere una costosa e imprevedibile «guerra delle risorse» per limitare l’ascesa del grande rivale e investire pesantemente in un egemonismo economico e geopolitico a ogni costo. Una corsa destinata a incrementare le tensioni nel mondo multipolare e sempre meno stabile e in cui l’Europa sembra destinata a un ruolo sempre più comprimario.

E si ingigantisce nella fattispecie il ruolo potenziale di una nuova polveriera taiwanese, crocevia geopolitico e ora tecnologico. In quest’ottica di riallineamento in chiave tecnologica ed egemonica sono leggibili d’altronde anche le recenti aperture di Biden: la proposta di ammettere l’Unione africana al tavolo del G20 e la missione diplomatica annunciata per il 2023 in quel continente, per recuperare lo svantaggio Usa su Francia, Russia e soprattutto proprio sulla Cina, nell’accesso alle risorse africane, compresi i minerali necessari a elettronica e batterie, essenziali per la riconversione energetica.