Da cinque anni, Franco D’Agostino – docente di assiriologia presso l’Università La Sapienza di Roma – dirige con Licia Romano gli scavi di Abu Tbeirah, una città sumerica risalente alla metà del terzo millennio e il cui interesse risiede nel fatto di collocarsi nel passaggio temporale tra l’era protodinastica e accadica che si conclude con l’unificazione della Mesopotamia da parte del re Sargon (2700-2200 a.C.). Con il collega Marco Ramazzotti, sempre della Sapienza, D’Agostino ha invece avviato un progetto di ricerca e salvaguardia dell’antica Eridu, secondo la tradizione sumerica la prima città in cui la regalità, una volta scesa dal cielo, andò a risiedere.

Grazie al sostegno del Ministero degli Affari Esteri italiano, le missioni archeologiche nostrane sono fra le poche a operare ancora in Iraq, nel difficile ma consapevole intento di offrire un contributo sia culturale sia politico alla ricostruzione del paese. In seguito al comunicato diramato dal team del progetto Shirin, secondo il quale la città assira di Nimrud e il sito di Hatra – patrimonio Unesco e scrigno prezioso dell’arte ellenistica e poi partica – non sarebbero state distrutte dall’Isis, e il video del 3 aprile che mostra invece decapitazioni di gorgoni e colpi di martello e fucile inferti su statue della stessa Hatra, abbiamo chiesto a D’Agostino la sua opinione in merito.

«Considerando che i siti del nord dell’Iraq sono sotto il controllo dell’Isis – dice – e quindi irraggiungibili per un sopralluogo, gli esperti internazionali del progetto Shirin hanno effettuato delle analisi sulla base di foto satellitari aggiornate, dalle quali non erano percepibili grossi danni. Tuttavia, dopo la divulgazione del video ci siamo dovuti arrendere all’evidenza, almeno per quanto riguarda Hatra. Dalle immagini è stato, infatti, possibile osservare che l’attacco ha colpito il santuario dedicato al Dio del Sole Shamash. L’assalto più violento, però, è stato compiuto nel sito cosiddetto del Grande Iwan, danneggiando in particolare il Tempio della Triade – Maran, Martan e Bar Marayan – costruito nel secondo secolo a.C. dal re Nasru e magnificamente decorato in stile partico».

Proprio nel video di cui sopra, si osserva un’estetica della distruzione. La gestualità dei jihadisti risponde a una sorta di rito, c’è una musica in sottofondo, i monumenti sono usati come scenografia per discorsi di propaganda.

C’è una regia, sì. Le immagini non seguono una sequenza temporale, vengono montate seguendo un disegno che è funzionale proprio alla propaganda mediatica. Da questi video emerge con chiarezza la spettacolarizzazione dell’azione politico-ideologica dell’Isis nonché il paradosso che sottende tali atti. I distruttori delle immagini che si ritrovano a fare politica attraverso il potere delle immagini stesse!

A chi sono diretti esattamente questi video?

Benché i video possano esser letti come una sorta di punizione verso l’Occidente e il suo interesse per il mondo pre-islamico, i jihadisti non si rivolgono a noi. Contro di noi, semmai, combattono. Di fatto stanno parlando alle altre tendenze del mondo musulmano, mostrando la loro incapacità, rispetto a quelle, di venire a patti con la diversità. Un retaggio del monoteismo che non è riuscito a fare i conti con ciò che è avvenuto prima della rivelazione. Probabilmente se non avessimo avuto Sant’Agostino, anche noi cristiani avremmo distrutto i templi greci. La motivazione di natura dottrinale e religiosa dell’Isis è la distruzione dell’idolo in quanto realtà fisica creata dall’uomo e che per sua stessa natura lo distrae dall’unico oggetto degno di devozione, ovvero Dio. Ma gli idoli non sono soltanto assiri, sumerici e babilonesi. Anche la moschea di Nabi Yunus – il Profeta Giona – a Mosul è stata distrutta perché era costruita sulla tomba di un uomo e tutto ciò che si frappone fra Dio e l’uomo, come ho detto, non è accettabile dall’islam violento propugnato dall’Isis, nemmeno la figura di un profeta precursore del Profeta dell’Islam.

È possibile stilare una lista di ciò che è stato distrutto finora?

Essenzialmente è stata distrutta la tradizione assira, soprattutto quella che trova espressione nella statuaria, poiché meno comprensibile all’ideologia dell’Isis. Per quanto riguarda i musei, è utile ricordare che dopo l’attacco americano durante la prima guerra del Golfo, quasi tutti – soprattutto quelli periferici – furono depredati. All’epoca, Saddam Hussein – il quale aveva consapevolezza delle forti tendenze disgregatrici del paese e per questo aveva fatto inviare in ciascun museo reperti che descrivessero la storia dell’intero Iraq al fine di creare una comune tradizione culturale – fece riportare tutti gli oggetti al museo di Baghdad, tranne le cose non trasportabili, come ad esempio i grandi geni alati assiri con testa di uomo, in forma di toro o leone, detti lamassu, e appunto le statute di Hatra. Come ha anche evidenziato Qais Hussein Rashid, vice-ministro per il Turismo e l’Archeologia, le opere distrutte al museo di Mosul erano solo in parte copie, si trattava perlopiù di originali.

È corretto attribuire all’Isis anche la responsabilità del traffico illegale di reperti?

È indubbio che si stia operando un saccheggio e che ci sia chi sta facendo affari ma l’entità del danno, per ora, è difficilmente verificabile. Avremo un quadro preciso solo fra qualche tempo. Tuttavia credo che i media occidentali stiano molto semplificando, quando fanno intendere che Isis finge di distruggere, mentre in realtà depreda. Il punto di vista dottrinale dell’Isis non contempla questo genere di attività che sono invece endemiche in altri paesi, Italia compresa. Non è l’Isis a compiere scavi clandestini. Se non altro per il fatto che, assieme alla pletora di gruppi che lo appoggiano, è impegnato a fare la guerra. Sono semmai alcuni membri delle popolazioni che vivono in prossimità dei siti e conoscono bene le potenzialità dei luoghi, a depredarli e a vendere i reperti, dividendo il ricavato con Isis in percentuali che variano a seconda del loro grado di affezione al movimento jihadista.

Si dice, però, che l’Isis la guerra la finanzi anche tramite la vendita di oggetti archeologici.

Non possiamo negare che un introito alla guerra dell’Isis provenga anche dalla vendita dei beni culturali ma è ugualmente vero che non abbiamo alcuna prova di questo. I reperti che arrivano in occidente e che la polizia e i carabinieri identificano e sequestrano, non sono quantitativamente paragonabili alla massa di oggetti che servirebbe per finanziare un terzo della guerra, come si ripete spesso. La situazione in Iraq settentrionale è diversa da quella che si verificò nel sud del Paese tra il 2003 e il 2007. Allora, gli Sciiti che si opponevano a inglesi e americani, si finanziavano fortemente tramite il saccheggio delle città sumeriche. Erano razzie diffuse, i cui danni eclatanti sono ancora visibili in molti siti meridionali dell’Iraq. In queste zone, ora che la situazione economica è migliorata, c’è un maggior controllo. Dove il governo ha una presa sul territorio, come nel Kurdistan e, appunto, nel Sud le condanne per questi crimini sono molto severe, fino alla pena di morte. A suo tempo, l’imam Al-Sistani, aveva addirittura lanciato una fatwa, affermando che depredare il patrimonio per armarsi e combattere gli americani era contro l’Islam e ottenendo l’interruzione dei saccheggi. In questo momento, al Nord, le depredazioni sono meno capillari e soprattutto non sembrano rispondere a una precisa strategia.

Come opporsi a questa situazione?

Escludendo categoricamente l’intervento armato, l’altra possibilità è supportare la parte dell’Iraq migliore e condividere le sue ragioni, aiutarla come facciamo noi, ad esempio con le missioni archeologiche. Alcuni ritengono inopportuno che nel clima di guerra del Paese noi proseguiamo le nostre ricerche, ma si sbagliano: sono gli iracheni che non vogliono interrompere le attività comuni e il rapporto di collaborazione instaurato da oltre 5 anni ormai. Il mio lavoro è anche, e in questa fase forse prioritariamente, quello di contro-informare. In questo modo contribuiamo alla normalizzazione dell’Iraq che sta resistendo all’Isis. Noi lottiamo, cercando di capire quotidianamente quale direzione prendere assieme ai nostri colleghi e referenti iracheni, con un atteggiamento che prende le distanze da quello coloniale che ha contraddistinto invece le attività di molti che ci hanno preceduto. Tengo infatti a precisare che sono il direttore di due missioni italo-irachene, non esclusivamente italiane. Noi abbiamo rimesso in moto non soltanto gli aspetti archeologici e culturali ma anche quelli economici. Creiamo un indotto sociale, oltre che culturale, e siamo convinti che gli archeologi possano dare un valido contributo in questo senso. Non basta andare in tv a recriminare sugli oggetti distrutti. È necessario operare concretamente. E sarebbe auspicabile, a livello internazionale, un maggior investimento pubblico e privato per le nostre attività pacifiche, perché in fondo noi stiamo facendo politica e le nostre azioni sono funzionali a quei processi di pace e sviluppo promossi dall’Europa intera. Sosteniamo, in definitiva, l’Islam che non ha paura di incontrarsi con l’altro da sé.