La guardia nazionale tunisina avrebbe provocato il naufragio di un’imbarcazione carica di migranti lo scorso 5 aprile. Sulla barca di ferro partita di sera dalle coste di El Amra, località tra Chebba e Sfax che dista appena 150 chilometri da Lampedusa, viaggiavano in 42. Tra loro: 14 donne e 7 bambini. In 16 avrebbero perso la vita.

È quanto hanno raccontato sei sopravvissuti a tre associazioni in contatto con molti migranti dall’altro lato del mare: Refugees in Libya, Mem.Med-Memorie Mediterranee e J&L Project. Secondo la loro ricostruzione, i militari hanno attaccato le persone già sulla spiaggia, nel tentativo di fermarle. Nonostante l’uso dei lacrimogeni, però, quelle sono riuscite a partire.

Dopo mezz’ora di navigazione sono state raggiunte da un gommone nero che ha tentato di rimandarle indietro con una tecnica estremamente rischiosa: tagliare la strada creando delle onde. Sulla scena è arrivata rapidamente una motovedetta grigia, più grande, che si è affiancata nella manovra.

Intanto i militari del gommone colpivano lo scafo sulla poppa, provando a distruggere il motore con una barra di metallo. Così è iniziata a entrare acqua e il mezzo, della tipologia che il procuratore aggiunto di Agrigento Salvatore Vella ha spesso definito «bare galleggianti» per l’alto rischio di ribaltamento, è affondato in pochi minuti.

Tutti i migranti sono finiti in mare, alcuni sono riusciti a nuotare verso i mezzi militari e sono stati salvati. Nel frattempo sono arrivate altre due unità della guardia nazionale tunisina per aiutare nel soccorso. Alla fine sarebbero morte 16 persone: 9 donne, 6 bambini e un uomo.

Non tutti i corpi sono stati recuperati. Un comunicato rilasciato il 7 aprile dal direttore regionale della sanità pubblica presso l’ospedale Habib Bourguiba di Sfax denuncia il fatto che la camera mortuaria è piena dopo la consegna di 13 cadaveri. Sarebbero riconducibili al naufragio.

I sopravvissuti, intanto, erano stati portati sul molo di Sfax, dove la mattina del 6 si trovavano accalcate circa 300 persone intercettate in diversi interventi.

La seconda parte del racconto riferito alle tre associazioni parla di molestie sessuali alle donne e persone costrette con la violenza a salire su alcuni furgoni. Destinazione: il deserto al confine con la Libia. Chi non è morto sarebbe stato arrestato dalle autorità dell’altro lato.

I GUARDIACOSTE DI TUNISI

«In diverse occasioni abbiamo ricevuto dei video che documentano i comportamenti aggressivi della guardia nazionale, sia contro i migranti subsahariani sia contro quelli tunisini. Le immagini mostrano militari armati mentre rubano i motori e mettono a rischio la vita delle persone», accusa Majdi Karbai, ex parlamentare di Tunisi che vive in Italia e dopo l’ascesa al potere di Kais Saied non può più tornare a casa.

Secondo Karbai questi comportamenti dipendono sia dalle pressioni internazionali, in particolare dell’Italia, sia dalla mancanza di una magistratura indipendente in grado di indagare le violazioni dei diritti umani e i crimini commessi dalle autorità.

Contro i nuovi finanziamenti di Roma alla guardia nazionale di Tunisi hanno presentato un ricorso al Tar del Lazio l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), Action Aid, Arci e Mediterranea. Le organizzazioni contestano lo stanziamento di quasi cinque milioni di euro per la riparazione e il trasferimento di sei motovedette. Il decreto del Viminale è di dicembre 2023, quando l’Alto commissariato per i diritti umani dell’Onu o l’Organizzazione mondiale contro la tortura avevano già lanciato l’allarme sulla situazione dei migranti in Tunisia.

Una prima udienza sulla richiesta di bloccare in via cautelare il finanziamento si è tenuta il 30 aprile. La prossima sarà il 14 maggio. Il giudice ha chiesto chiarimenti all’Avvocatura dello Stato sulle tempistiche del trasferimento delle motovedette dopo la conclusione dei lavori per la rimessa in funzione.

Intanto il governo di Saied ha emesso un decreto, il numero 84, per mettere ordine nel sistema di ricerca e soccorso con l’istituzione di un centro di coordinamento. Un piano nazionale, invece, dovrà delimitare procedure e zone di responsabilità. Una mossa che sembra andare verso l’indizione di una propria zona di ricerca e soccorso, su cui comunque dovrà esprimersi l’Organizzazione marittima internazionale (Imo). La data in calce al decreto è il 5 aprile: è stato firmato poche ore prima del naufragio.

TENSIONI A TERRA

Nelle ultime settimane, comunque, le tensioni sono cresciute anche a terra. Il 3 maggio scorso Refugees in Libya ha denunciato attacchi e arresti da parte delle forze di sicurezza tunisine contro i rifugiati – provenienti soprattutto da Sudan, Sud Sudan , Chad ed Etiopia – accampati per protesta davanti agli uffici dell’Unhcr di Tunisi dalla fine di febbraio scorso. Il sit-in ha coinvolto alcune centinaia di persone, che chiedevano protezione. Quelle finite in arresto sarebbero state portate al confine con l’Algeria.

A Sfax, invece, la popolazione locale è scesa in strada contro i migranti subsahariani. Ci sono state manifestazioni e veri e propri attacchi fisici. «È ricominciata la caccia all’uomo nero, sulla scorta dei discorsi d’odio e del teorema della sostituzione etnica sostenuto da Saied», attacca Karbai.

E continuano anche le deportazioni illegali al confine orientale del paese nordafricano. «La Fondazione nazionale per i diritti umani in Libia (Nihrl) esprime profonda condanna nei confronti delle autorità tunisine che continuano a espellere immigrati irregolari e richiedenti asilo nelle aree di confine libiche», scrive l’organizzazione in un comunicato, dove accusa di collusione anche le autorità libiche.

A corredo della denuncia un video che risale al 2 maggio scorso e ritrae un gruppo di persone abbandonate nel deserto e prese in consegna dai militari. Secondo l’Nihrl fanno parte di un gruppo di circa 120 migranti deportati quel giorno.

Ieri, poi, Saied ha confermato l’espulsione di 400 migranti dalla Tunisia alla Libia.