Quella del 2020 sarà la prima campagna elettorale sotto l’ombra minacciosa di una epidemia in corso e la situazione politica è più incerta e imprevedibile che mai. Nelle primarie democratiche Bernie Sanders resta in gara, i recenti successi di Joe Biden non lo hanno convinto a ritirarsi e guarda con fiducia al dibattito di sabato sera a Phoenix, in Arizona, con il suo avversario. Un dibattito che, per la prima volta, si svolgerà senza pubblico: il coronavirus è entrato nella campagna elettorale americana.

In una dichiarazione dal Vermont, ieri pomeriggio, Sanders ha anticipato le domande che farà a Biden fra 48 ore: se fosse eletto presidente, cosa farebbe per il mezzo milione di americani che ogni anno dichiarano bancarotta a causa di spese mediche che non sono in grado di sostenere? Cosa farebbe per «mettere fine all’assurdità del fatto che gli Stati uniti sono l’unico paese industrializzato al mondo a non avere un servizio sanitario nazionale»? Cosa farebbe per affrontare il problema dei giovani che si sono indebitati per frequentare l’università? E come metterebbe fine a un sistema di incarcerazione di massa che ha gettato in carcere oltre tre milioni di americani?

Domande pesanti, vedremo quanto abile e convincente sarà Biden a rispondere di fronte a una platea televisiva dove almeno metà degli spettatori sono sulla stessa lunghezza d’onda di Sanders.

IL CONTEGGIO dei delegati è a favore di Biden, che nei 24 Stati dove si è votato finora ha ottenuto 857 delegati alle convention di Milwakee dove si sceglierà in luglio il candidato del partito, mentre Sanders ne ha accumulati 709.

Tuttavia, il partito democratico assegna i suoi delegati con un meccanismo proporzionale, quindi Sanders dovrebbe ottenere delle ampie maggioranze negli Stati dove si deve ancora votare per colmare il distacco: un compito estremamente difficile.

UN TENTATIVO che appare impossibile se si guarda al calendario delle primarie la prossima settimana: Florida, uno Stato di pensionati dove Biden vincerà per distacco; Ohio, uno Stato del Midwest simile a Minnesota e Michigan dove Biden ha vinto l’altro ieri; Illinois, dove la situazione è incerta e Arizona, dove Sanders potrebbe avere un buon risultato ma certo non sufficiente a pareggiare il conto.

La logica del bipolarismo americano imporrebbe a Bernie di ritirarsi per ricompattare le due anime del partito, che potrebbe arrivare alla convention in luglio con migliori possibilità di sconfiggere Trump in novembre.

Il problema è che Sanders, qualsiasi siano le sue convinzioni personali, ha promesso ai suoi sostenitori «una rivoluzione», non una semplice candidatura e poiché centinaia di migliaia di giovani americani stanno votando per lui in quest’ottica non è facile dire loro «turiamoci il naso e votiamo per Biden».

La conferenza stampa di Bernie Sanders ieri a Burlington, Vermont (Foto: Ap)

Molto più di Trump, Biden rappresenta tutto ciò che la politica americana ha fatto negli ultimi 47 anni (diventò senatore addirittura nel 1973): il legame con il potere del denaro, l’invasione dell’Iraq e dell’Afghanistan, la misoginia nei confronti delle donne.

Certo, Biden è anche stato vicepresidente di Obama e quindi può rivendicare in parte la sua eredità, ma questo non sarà certamente sufficiente a convincere i giovani a votarlo. Gli americani tra i 17 e i 29 anni votano poco: costituiscono una percentuale dell’elettorato democratico che oscilla tra il 10% e il 20%, la metà degli anziani sopra i 65 anni. Il problema è che in un’elezione che potrebbe benissimo giocarsi sul filo di 500 voti (come accadde nel 2000 in Florida) anche una parziale disaffezione di questo gruppo rischia di essere fatale.

QUALUNQUE COSA accada nel partito democratico nelle prossime settimane appare tuttavia secondario rispetto al fatto che questa sarà la prima campagna elettorale nella storia degli Stati uniti che si svolgerà con una epidemia in corso.

Un’epidemia che, in assenza di misure radicali di contenimento finora mancate, potrebbe fare milioni di contagiati nei prossimi mesi, malgrado i tentativi della Casa bianca di minimizzare il problema. Lo ha dichiarato ieri al Congresso Anthony Fauci, il più rispettato degli esperti di sanità pubblica del paese.

Dopo aver sostenuto per settimane che tutto andava per il meglio, ora Trump si starebbe preparando a dichiarare una situazione di emergenza nazionale, ma potrebbe essere già troppo tardi.

IN OGNI CASO, IL PREZZO di rallentare la diffusione del Covid-19 sarà altissimo: parti sostanziali dell’economia americana non possono fare altro che ridurre le operazioni o chiudere completamente, in particolare in tutto ciò che è legato ai viaggi, compagnie aeree, ristoranti, motel, auto a noleggio, crociere.

A questo si aggiunge il fatto che, durante lo scorso fine settimana, Russia e Arabia saudita hanno iniziato una guerra dei prezzi del petrolio che ha mandato il prezzo del greggio al suo più grande crollo degli ultimi tre decenni – che potrebbe causare diffusi fallimenti a catena nell’industria americana dell’energia (il fracking, cioè l’estrazione di petrolio dagli scisti bituminosi, ha reso gli Stati uniti autosufficienti ma il costo per barile di questa tecnica è molto superiore a quello del petrolio russo o saudita).

Dopo una breve euforia martedì, la Borsa americana è tornata a calare pesantemente ieri, con un drammatico 5,5% di perdite. Nell’ultimo mese Wall Street ha perso il 20%, un risultato che si ripercuoterà rapidamente sull’economia reale e condurrà gli Stati uniti a una recessione che potrebbe essere peggiore di quella del 2008. Storicamente, agli elettori americani non piace rieleggere i presidenti in carica quando i conti sono in rosso.