All’interno e non oltre il carcere esiste un universo comunicativo dotato di regole proprie. Sono poche parole, sempre le stesse, inusuali e specifiche, inventate o storpiate, per la maggior parte sconosciute o prive di significato al di fuori delle strutture di detenzione. Dentro le mura esistono due modi di comunicare: il binario della comunicazione con gli agenti e quello della comunicazione tra detenuti. Due piani che si sovrappongono continuamente, paralleli ma mai convergenti. Nel primo caso, vige un implicito patto di riduzione formale del linguaggio che agisce come una regola dello svantaggio decisa in partenza.

Questa è la lingua che qui si parla, questa è la lingua che devi imparare: una zona linguistica sospesa, un passo avanti al tu ed uno indietro al lei.

È il formale informale, una via di mezzo dove non prevale mai né l’uno né l’altro, anche se l’impostazione con la quale ci si rivolge agli agenti è sempre preposta al lei. Quest’indeterminazione linguistica pone i detenuti in una posizione di subordinazione costante perché finto formale e finto informale, sommandosi si annullano a vicenda. Tendenzialmente il vocabolario del carcere è ristretto alla necessità di far funzionare quel tanto che basta la burocrazia penitenziaria. Le richieste, i bisogni e le necessità, si devono conformare alla modulistica, la quale tendenzialmente è poco generosa e non concede mai oltre le tre righe. L’universo comunicativo del carcere, ostinatamente nel 2024, raggira ed esclude le possibilità di comunicare con coerenza e dignità. La pochezza dei codici comunicativi imposti dall’alto ricade verso il basso: nella relazione tra reclusi la semplificazione concettuale per imitazione è sovrana. In mancanza di alternative si segue ciò che è preposto all’efficacia; i detenuti si adeguano. Se da un lato è vero che in cella una comunicazione schietta, diretta e colloquiale è necessaria per impostare subito i termini e le regole di una convivenza forzata, dall’altro lato è costantemente permeata dalle delimitazioni oltre le quali non c’è risposta ed è inutile farsi domande. Ci si abitua a non poter esprimere i propri disagi perché mancano gli strumenti lessicali che dovrebbero essere garantiti dall’alto dei canali istituzionali preposti.

Il risultato di questa mancanza è che in cella la maggior parte delle volte che una conversazione accenna ad argomenti esterni al burocratese carcerario è vista con sospetto e diffidenza. Il primo tabù comunicativo è l’emotività, tagliata fuori in quanto incomprensibilmente complessa. La catena che dovrebbe portare un detenuto verso uno psicologo si spezza nel momento in cui tra i due si frappongono moduli, domandine, attese e silenzi. Escludendo lo spazio e l’organizzazione per le parole necessarie, il linguaggio del carcere omogeneo e trasversale riproduce giorno dopo giorno schemi inefficaci. Questo stato delle cose è garantito dal privilegio anomalo di poter essere un apparato della Repubblica che sembra seguire logiche e regole irrazionali ma ben accette. Irresistibilmente lento, complesso e oscuro, il carcere deve essere riformato. In un paese dove non si scuotono le fondamenta della parola carcere mentre il resto della società è investita da una trasformazione radicale, il progresso al quale possiamo aspirare resta chiuso a chiave in un cassetto.

*Luigi Travaglia è un nome di fantasia dietro il quale si nasconde uno dei 61mila detenuti nelle carceri italiane.