Quando l’aviatore Lindbergh e il chirurgo Carrel si incontrarono per la prima volta nel novembre del 1930, non avevano nulla in comune. Nessuno avrebbe potuto prevedere l’avvio di un sodalizio straordinario e tragico, che li avrebbe prima innalzati sulle vette della scienza e poi trascinati nel fango della storia.

IL MEDICO FRANCESE Alexis Carrel era all’apice del successo. Negli Usa, dove aveva lavorato sin dall’inizio della carriera, aveva scoperto come suturare vene e arterie durante gli interventi chirurgici, vincendo il premio Nobel nel 1912. Era rientrato in Francia solo durante la prima guerra mondiale. Negli ospedali militari aveva scoperto che l’amuchina disinfettava le ferite dei soldati. Le migliaia di vite salvate gli valsero la Legion d’onore.
Al Rockfeller Institute di New York aveva creato una divisione di «chirurgia sperimentale» dove portare avanti progetti visionari. Nel suo regno dava sfogo a ogni mania. Credeva nella fisiognomica, la pseudoscienza secondo cui il volto riflette le qualità di una persona e, più volte, aveva cacciato un nuovo venuto perché aveva la faccia sbagliata. Aveva chiesto che in sala operatoria tutto fosse colorato di nero, dalle pareti ai camici di medici e infermieri. Diceva che «troppa luce inibisce l’attività cerebrale».

OGGI, LE SALE OPERATORIE sono dipinte di verde perché contrasta meglio con il rosso del sangue, e comunque fatevi operare voi da quattro becchini in abito scuro in una stanza tutta nera. In quel buio, aveva sperimentato i primi trapianti sugli animali. Una volta aveva tolto un rene a un gatto e glielo aveva trapiantato nel collo, e l’organo aveva ripreso a funzionare. Nonostante la fama, Carrel viveva in un piccolo appartamento disadorno, lontano dalla mondanità newyorkese. «Gli uomini di scienza devono essere lasciati alle loro meditazioni come i monaci alle loro preghiere», diceva.
Anche Charles A. Lindbergh aveva raggiunto la gloria attraversando l’Atlantico. Ma a differenza di Carrel, che aveva viaggiato in nave, lo aveva fatto in senso inverso e parecchio più in alto, volando per la prima volta in solitaria sullo Spirit of St. Louis da New York a Parigi in 35 ore nel 1927. L’«Aquila solitaria» (il suo soprannome) era un perfetto testimonial dell’America pre-Depressione. Era bello, audace e cresciuto nel rude e rurale Minnesota, non in qualche università d’élite da fighetto. Il popolo lo adorava e qualunque suo spostamento muoveva pullman di fotografi. La privacy divenne un’ossessione, ma l’allergia per il palcoscenico ingrandiva ancora il suo mito: era anche modesto, l’eroe.

Lindbergh aveva cercato Carrel per una questione medica di famiglia: la valvola cardiaca di sua cognata Elisabeth faceva le bizze e nessun medico sembrava in grado di curarla. Lindbergh non poteva accettare l’impasse. Il cuore è una pompa, come quelle che spingono e stantuffano in un motore d’aeroplano. E quando un pezzo non funziona, l’aviatore è abituato a ripararlo o a sostituirlo senza tante storie. Carrel, che smontava e rimontava i gatti, avrebbe avuto la soluzione.

PRIMA DI STRINGERGLI la mano, Carrel lo scrutò a lungo: il medico credeva nella fisiognomica. La faccia dell’aviatore sembrava a posto. Davanti a un the, lo scienziato spiegò a Lindbergh la differenza tra il cuore della cognata e il nove cilindri che spingeva lo Spirit of St. Louis, e l’impossibilità di operarla con i mezzi dell’epoca. Lindbergh aveva scarsissime conoscenze mediche, ma quando si trattava di tubi, pompe idrauliche e fluidi da miscelare seguiva perfettamente Carrel. Il medico decise dunque di mostrargli il suo laboratorio. Gli fece vedere il banco di laboratorio, la vetreria, le apparecchiature elettriche e meccaniche. Poi le gabbie con topi, gatti e cani pronti a essere smontati e rimontati sotto il bisturi del francese. Prima di provare su un uomo, spiegò, c’era molta strada da fare: bisognava innanzitutto trovare un modo sicuro di tenere separati gli organi e il corpo, senza ammazzare né gli uni né l’altro.

Lindbergh e Carrel scoprirono di avere molto in comune. La loro ritrosia era in realtà una forma di alterigia rispetto alle masse. «Volando, ho assaggiato il vino degli dèi, di cui (gli scettici a terra) non sanno nulla», scrisse Lindbergh nella sua autobiografia. Carrel estendeva la superiorità alla razza bianca occidentale, che avrebbe dovuto difendere la purezza del proprio patrimonio genetico. Per il medico, l’uguaglianza era uno dei tanti errori della democrazia, inventata «quando non c’erano sufficienti conoscenze scientifiche per contrastarla». Ora le conoscenze c’erano e si chiamavano «eugenetica», cioè l’applicazione delle leggi della selezione naturale allo scopo di migliorare la specie. Lindbergh era d’accordo: aveva sposato Anne anche per i suoi geni, del resto in Minnesota il bestiame si sceglieva così.

L’ALTRA PASSIONE COMUNE era la ricerca dell’immortalità. Anche qui, Carrel inseguiva con i mezzi della scienza gli scopi che Lindbergh rincorreva con l’intuizione bigotta del ragazzo di campagna. Per l’aviatore, la morte era un’ingiustizia che Dio non avrebbe dovuto permettere e su cui, da ragazzo, tormentare mamma Evangeline, insegnante di scienze. Carrel, invece, faceva sul serio. Una bottiglietta con un campione di tessuto cardiaco di una gallina, mantenuto in salute grazie a una soluzione nutritiva dopo quasi vent’anni, lo aveva convinto che le cellule non invecchiano, se mantenute in salute. Un giorno, grazie ai trapianti, si sarebbe donata l’immortalità ai migliori individui della specie.
Quanto agli altri, la morte avrebbe impedito contaminazioni geniche dannose. Ci credeva al punto di rivolgersi a un avvocato per informarsi: se avesse resuscitato qualcuno, avrebbe dovuto provvedere al suo sostentamento, come una sorta di genitore?
Per un comune mortale, il laboratorio di Carrel era una bottega degli orrori. A Lindbergh, invece, sembrò un’officina ben equipaggiata. Se conservare vivo e a lungo un organo intero (un fegato, un cuore) era un problema insormontabile per un medico, per lui era solo questione di ingegno, buoni materiali e olio di gomito. In pochi mesi, sotto la guida di Carrel, l’ex-prodigio dell’aria realizzò una pompa in grado di spingere ritmicamente i fluidi fisiologici attraverso gli organi staccati dal corpo senza infettarli. Grazie alla macchina, un organo poteva essere conservato vivo in laboratorio per ore, forse giorni, forse per sempre. L’era dei trapianti poteva avere inizio.

Tuttora, dopo la scoperta della crio-conservazione, in molti trapianti si utilizzano pompe a perfusione derivate dal prototipo di Carrel e Lindbergh. Oltre che sulle riviste scientifiche più importanti, i due finirono sulle copertine dei magazine più venduti. La macchina rendeva possibile una vita magari non eterna, ma più lunga dei sessant’anni scarsi che toccavano in media a un americano a metà anni ’30.

LA RICERCA FU INTERROTTA dai venti di guerra che soffiavano sull’Europa. Lindbergh indossò di nuovo l’uniforme e nel 1938 fu inviato dal governo Usa a ispezionare le aviazioni di Inghilterra, Francia e Germania, nettamente superiore. Hitler aveva fatto miracoli, e questo non poteva che confermare le tesi dell’amico Carrel. La stima dell’aviatore statunitense era ricambiata dai gerarchi, che non risparmiarono decorazioni e inviti in suo favore. Lindbergh aderì al movimento «America First» e spese tutta la sua influenza affinché gli Usa non entrassero in guerra contro il regime nazista, persino quando le persecuzioni anti-ebraiche divennero pubbliche – lo stesso Lindbergh sosteneva tesi antisemite. Quando l’interventismo di Roosevelt prevalse, l’aviatore fu interdetto dalle operazioni belliche a causa delle sue ambigue relazioni col nemico. Riuscì poi a farsi riammettere come pilota da combattimento, ma nei cieli del Pacifico. Si innamorò di quegli atolli, fino a diventare un militante ambientalista a tempo pieno nel dopoguerra.

Anche Carrel, allo scoppio della guerra, era in una posizione ambigua. La sua Francia era occupata dalla Germania, che ammirava per le idee e disprezzava per le atrocità ai tempi della Grande Guerra. Il governo-fantoccio di Vichy, però, l’avrebbe accolto a braccia aperte. Tornò a Parigi e ottenne risorse e personale per la «Fondazione Carrel», dove portare avanti gli studi sul miglioramento umano. Durò poco: alla liberazione fu accusato di collaborazionismo e morì sotto la custodia della Resistenza nel 1944.