Il titolo più strappalacrime è quello del Giornale. «Hanno ammazzato il Pd», grida Augusto Minzolini, dipingendo l’atroce scenario di un partito che sarà «più Mélenchon con una dose di Fedez che non Vincenzo De Luca». E giù lacrime per il governatore campano. Per quel De Luca che, lamenta Minzolini, «dovrà dire addio al terzo mandato».

Il direttore più berlusconiano del reame avverte che i dem potrebbero addirittura «sfornare proposte economiche che riecheggiano parole d’ordine della Cgil», come patrimoniale e salario minimo. Salvo poi profetizzare un terzo polo che aumenta a dismisura» i suoi spazi elettorali, beneficiato da un Pd che – attenzione- «si mischierà coi movimenti femministi, le istanze Lgbt e quelle pacifiste». Costernato anche Maurizio Belpietro su La Verità: «Arriva la Schlein, se ne va il Pd», il titolo di apertura, «i dem si sono suicidati, addio alla vocazione riformista e alle ambizioni di guidare il Paese». Ma come? Il Pd pre-Schlein non era il partito di Bibbiano e delle tasse, il covo dei dittatori del lockdown, amico dei terroristi islamici? Per una sorta di miracolo, la vittoria di Schlein ha generato nei fogli della destra una improvvisa nostalgia per il partito di Letta e Franceschini. E persino per quello di De Luca. Il presunto suicidio dei dem, che dovrebbe favorire la permanenza di Meloni a palazzo Chigi per almeno un ventennio, d’improvvido diventa una notizia triste.

Sul Foglio la tristezza «ci avvolge come il miele» della canzone di Guccini. Il lutto per la sconfitta del moderato Bonaccini non trova consolazione. E pensare che la mozione Schlein era «una supercazzola infarcita di luoghi comuni, come abolire il patriarcato». Niente da fare, gli elettori hanno scelto la «vocazione minoritaria», l’«agenda delle banalità», «un programma che è quanto di più antico e nostalgico ci possa essere». La nuova segretaria si propone, mannaggia a lei, di voler rimuovere il Jobs Act, tassare i più i ricchi, difendere l’ambiente a prescindere da quello che vogliono gli (im)prenditori. Che orrore questa «socialconfusione», questo programma che non mette in cima «la difesa delle imprese, dei confini e del mercato». Per quello ci sarebbe già la destra, a pensarci bene. O il Pd renziano. Ma il direttore Cerasa non viene sfiorato da questo pensiero, e si strugge per la fine del partito «del buonsenso che faceva argine ai populisti».

Il Tempo ha invece il pregio della chiarezza: «ComunistElly», il titolo, «nostalgia rossa, si torna alle canne libere e alla lotta di classe». Ci sta, anche se Schlein pare per ora assai distante dagli obiettivi di Carlo Marx. Ma tanto basta per épater les bourgeois.

Più insidie per la neosegretaria vengono dalle firme dei grandi giornali borghesi che, dopo aver accompagnato per mano Letta nel burrone dell’agenda Draghi, ora la incalzano spiegandole che, se osasse imitare Mélenchon (che in Francia va molto meglio del Pd), sarebbe destinata all’irrilevanza (Folli su Repubblica). Ma la ciccia che accomuna i tre editorialisti di Repubblica, Stampa e Corriere è la guerra. «La politica verso l’Ucraina e la Nato sarebbe il casus belli per una scissione nel Pd» avverte Folli, anche se nulla nel discorso di Schlein lascia presagire un cambio di linea sulle armi all’Ucraina. A meno che definirsi «pacifista», come le ricorda il Corriere, non sia il sintomo di «una deriva putiniana in contrasto con l’Europa e gli Stati Uniti». «Una stagione sovrastata dal rischio della scissione», il perentorio allarme di Massimo Franco che ricorda come dietro Schlein ci sia una «nomenklatura» portatrice di «un’identità sconfitta dalla storia ma gonfia di nostalgia». E denuncia «un tasso di antirenzismo che può rivelarsi un boomerang». E perché mai? Franco, già proiettato nelle campagne padane, vede una «nebbia fitta» sulla volontà del Pd di rimanere «il riferimento delle istituzioni e delle cancellerie occidentali». E si torna alla ciccia, il rischio cioè che Schlein sbandi su «un crinale pacifista, tiepido sugli aiuti all’Ucraina» o «insegua il larvato filoputinismo del M5S». A quel punto la scissione sarebbe inevitabile, forse desiderabile (dai loro editori).

Marcello Sorgi sulla Stampa teme addirittura che Schlein « capovolga lo storico sì di Berlinguer alla Nato del 1976». Che paura. E che confusione: come se chiedere, come ha fatto la neoleader, più diplomazia per arrivare a un cessate il fuoco significasse uscire dall’ombrello Nato. Il fatto che Schlein abbia in tasca il passaporto americano sfugge agli avvertiti colleghi. Strano, visto che non è un dettaglio.