A due anni e dieci giorni dall’arresto di Selahattin Demirtas, la Corte europea per i diritti umani si è espressa: la Turchia deve rilasciare il leader dell’Hdp, il partito di opposizione di sinistra e pro-curdo, in una cella della prigione di massima sicurezza di Edirne dal 4 novembre 2016.

È da lì che Demirtas ha condotto la sua campagna elettorale, via Twitter, oscurato dai principali media turchi: alle presidenziali del 24 giugno scorso è arrivato terzo, con l’8,4% dei voti, mentre l’Hdp riusciva a entrare in parlamento con l’11,7%, quasi due punti percentuali in più dello sbarramento.

La detenzione in attesa di processo (o meglio processi, sono 20), hanno detto ieri i giudici europei, è «ingiustificata» e viola la libertà di espressione perché gli impedisce di svolgere l’attività di parlamentare democraticamente eletto: «Il prolungamento della privazione della libertà, in particolare nelle due ultime cruciali campagne elettorali, persegue lo scopo prevalente non dichiarato di soffocare il pluralismo e di limitare la libertà del dibattito politico», scrivono i giudici che condannano Ankara al pagamento di 10mila euro simbolici di danni morali e 15mila di spese legali.

Alla base sta la violazione degli articoli 5 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (il diritto ad essere portato prima possibile di fronte a un giudice), 3 del primo protocollo (diritto a elezioni libere) e 18 (limitazioni alla restrizione dei diritti).

A seguito della sentenza, non vincolante, della Corte europea i legali di Demirtas hanno subito presentato una richiesta di rilascio alla corte di Ankara responsabile del caso: tenerlo in prigione così a lungo senza mai andare a processo non ha giustificazione.

Non è il solo in prigione. Il 4 novembre 2016 erano stati arrestati altri 11 deputati Hdp, tra cui la co-presidente del partito Yuksekdag. Su di lui pesano una serie di accuse, dall’insulto al presidente Erdogan all’appartenenza a organizzazione terroristica (il Pkk): se venissero tutte accolte dai tribunali turchi, rischia condanne fino a 142 anni di prigione.

Rischia, perché al momento i processi non sono neppure partiti. Se non quello per insulti al primo ministro, all’epoca Davutoglu (poi dimissionato da Erdogan): il 14 novembre si è tenuta un’udienza, a cui Demirtas ha avuto accesso solo in video conferenza, che ha solo stabilito la non competenza di quella corte a procedere.

Se subito è giunta la reazione di Demirtas («La mia posizione di ostaggio politico è stata legalmente confermata»), non si è fatta attendere nemmeno quella di Erdogan. Che, in sintesi, ha detto di fregarsene: «Le decisioni della Corte europea non sono affar nostro». Poi ha elaborato: «Ci sono molte cose che possiamo fare contro la sentenza. Faremo una contromossa e chiuderemo la questione».

Una questione che gli preme, e parecchio: Demirtas è tra le figure più carismatiche del panorama politico turco, il solo in grado di unire sotto la bandiera dell’Hdp la sinistra turca, i curdi, i movimenti ambientalisti e la comunità Lgbtqi. Per l’Ankara dell’Akp è stato fondamentale tenerlo dietro le sbarre mentre il paese era chiamato a votare prima il referendum costituzionale che ha regalato (per un soffio) a Erdogan poteri semi-assoluti e poi le presidenziali che hanno chiuso il cerchio della riforma presidenziale.