Nel tentativo di bloccare la crescita dell’inflazione (al 9,1% ad agosto), e riportarla sotto il 2%, ieri la Banca Centrale Europea ha dato un altro contributo alla corsa dei paesi dell’Eurozona verso la stagflazione o, peggio, la recessione. Spinta dalla stessa politica della Federal Reserve americana, Francoforte ha inasprito ancora la politica monetaria e ha alzato i tassi di interesse di 75 punti base, la prima volta in due decenni di esistenza dell’istituto, a parte un aggiustamento tecnico nel 1999. Gli altri due tassi di riferimento, quello applicato alle banche sulle operazioni di rifinanziamento a più settimane e quello sulle operazioni di rifinanziamento marginale sono saliti rispettivamente all’1,25% e all’1,50%.

GLI AUMENTI avrebbero lo scopo di incoraggiare il risparmio, ridurre i consumi e diminuire la pressione sui prezzi. Ciò implica però l’aumento dei mutui, l’abbassamento dei salari che in Italia sono già bloccati da decenni, la crescita della disoccupazione e dell’impoverimento. Sono i costi sociali già dichiarati dal presidente della Fed Jerome Powell a Jackson Hole: «Pensiamo di poter evitare il tipo di costi sociali molto elevati». Gli stessi che sono stati ammessi a mezza bocca ieri dalla sua omologa alla Bce Christine Lagarde. Non senza ipocrisia, ha detto che «Il rallentamento economia porterà a un certo aumento della disoccupazione»; «Le dinamiche salariali resteranno contenute»; «Il rallentamento delle forniture del gas rafforzano i venti contrari».

E NON È FINITA QUI. Lagarde ha confermato che nei prossimi incontri del consiglio direttivo la Bce potrebbe aumentare ancora i tassi di interesse. Questo perché deve pensare di rimediare al disallineamento con la Fed che, dopo le incertezze iniziali, sta procedendo in questa direzione con più decisione. Ciò però rischia di aggravare la salute dell’Euro sul dollaro e, soprattutto, di rincarare ancora il costo del debito pubblico che in Italia è stratosferico. Chiudendo i rubinetti delle politiche monetarie espansive la Bce ha complicato la situazione.

LA STRATEGIA CONFERMA l’intenzione di accelerare la crisi per evitare guai peggiori. Sull’esempio degli americani, ma in un contesto economico diverso, gli europei temono una recessione accompagnata da un’inflazione senza controllo. Così facendo, a loro dire, la crisi sarebbe limitata al 2023 quando si prevede un crollo del Pil dell’Eurozona dal 3,1% allo 0,9% (dal 3,6% allo 0,9% in Italia) con la speranza di riportarlo al 2,3% nel 2024. Con un’inflazione di tutt’altra natura, tra il 1980-1981 negli Stati Uniti questa politica comportò una doppia recessione e una politica lacrime e sangue. Non è escluso che, per ragioni legate alla crisi del Covid, alla guerra russa e alle sanzioni europee, sia questo il destino che si prepara per l’Europa e per il suo anello debole: l’Italia. «Nello scenario base – ha detto Lagarde – vediamo una stagnazione nel quarto trimestre 2022 e nel primo trimestre 2023 ma nello scenario peggiore, che prevede uno stop totale alle esportazioni di gas e petrolio russo, vediamo una recessione. Ci siamo quasi».

IL PROSSIMO GOVERNO italiano potrebbe essere stritolato nella tenaglia. Ieri se ne è accorta l’estrema destra di Giorgia Meloni che, muovendosi tronfia da presidente del Consiglio in pectore, ha detto però di «essere perplessa per la decisione della Bce». Da un punto di vista opposto, più netto è stato Maurizio Acerbo di Rifondazione Comunista: «Invece di imporre regole alla speculazione finanziaria la Bce decide di far pagare le conseguenze della guerra ai popoli».

STIAMO OSSERVANDO un terremoto. Anche le dimissioni di Draghi vanno inquadrate nel drastico cambio di congiuntura e nella policrisi capitalista. La confusione delle banche centrali, e dei governi, è massima. Ieri Lagarde ha fatto mea culpa per non avere compreso la natura dell’inflazione, ma sta suonando lo spartito sbagliato. I costi li pagheranno ancora i lavoratori, e non. Per loro è finita l’«era dell’abbondanza», quella dei bassi salari. Potrebbe iniziare una peggiore.