Il caso Schillaci come sintomo di un problema più profondo che attraversa tutto l’ambiente dei ricercatori, in Italia e non solo.

Giuseppe De Nicolao, professore all’università di Pavia e membro dell’associazione Roars, cita il titolo di un libro del genetista francese Laurent Ségalat, La scienza malata, per descrivere lo stato delle cose.

Siamo di fronte a uno scienziato di rilievo, con incarichi e responsabilità importanti – dice De Nicolao -, e questo è un fatto di per sé importante, ma è anche sintomo di una malattia più vasta». Quale? Risponde il docente: «La ricerca si muove con criteri di competitività in tutto e per tutto simili a quelli del mercato, un sistema quantitativo che premia il numero di pubblicazioni e di citazioni, ma questo distrugge la deontologia degli scienziati. Ci sono responsabilità etiche nella ricerca».

In buona sostanza, il sistema premia chi pubblica e viene citato di più, il che, soprattutto tra i precari, può voler dire firmare un ingente quantitativo di ricerche solo per vedere il proprio contratto rinnovato. Nel caso degli studiosi più blasonati (e garantiti), come lo stesso Schillaci – che prima di diventare ministro era rettore a Tor Vergata – la necessità di pubblicare e di farsi citare serve a tenere la posizione, a confermare il proprio status all’interno della comunità scientifica.

La media di Schillaci, per inciso, è di una pubblicazione ogni 12 giorni: un ritmo incredibile, anche se il lavoro viene condotto insieme ad altri.

«Questa produzione ipertrofica di studi – prosegue De Nicolao – droga le statistiche verso l’alto. Così abbiamo una letteratura scientifica ma dal valore discutibile, con i ricercatori costretti a correre come criceti sulle ruote».

Il problema, dunque, non riguarda solo le possibili frodi, ma anche il fatto che dover fare tanta ricerca può portare a una certa trascuratezza nel modo di farla: scarsi controlli, conclusioni affrettate, errori banali.

Secondo la rivista Aboutpharma, che cita il ricercatore Enrico Bucci, la produzione di immagini scientifiche false è un grande classico della manipolazione in ambito scientifico.

«Per semplicità realizzativa e verosimiglianza del risultato – scrisse Bucci nel suo libro Cattivi scienziati – questo tipo di manipolazioni dei dati è diventato, assieme al plagio del testo, il metodo più diffuso di frode: il 70% delle indagini condotte dall’Office for research integrity americano, infatti, è focalizzato sulla manipolazione di immagini».

Di casi del genere ne emergono spesso, anche se quasi mai coinvolgono un ministro. Si tratta di una questione di metodo, di un modo di fare: produrre tanto, appunto, genera frodi anche grossolane, oltre che un gran numero di errori e di ricerche prive di significato.

L’importante è trovare una rivista che pubblichi lo studio, e magari che questo studio poi venga citato da altri: è il cosiddetto H-Index (Indice di Hirsch, dal nome del fisico americano che l’ha inventato), che valuta gli scienziati sulla base del numero di volte che il loro nome compare nelle riviste e nei libri. Come ci si finisce, tutto sommato, è un discorso a parte.

Sempre a Aboutpharma, interrogata sull’eventuale necessità di fare una legge contro le manipolazioni, la senatrice a vita Elena Cattaneo aveva suggerito una strada diversa: una «regolamentazione almeno a livello europeo, in modo da offrire alla comunità scientifica uno standard giuridico uniforme».

La conclusione, per De Nicolao, tocca le responsabilità personali di ciascuno scienziato: «La reputazione non si può misurare con dei numeri. Sulla questione Schillaci il punto è che in una comunità scientifica seria, chi si ritrova coinvolto in una storia del genere dovrebbe sentirsi distrutto: avrebbe perso tutta la sua credibilità e il suo laboratorio risulterebbe squalificato».

Nessuno dovrebbe fidarsi più di chi fa ricerca in questa maniera? «In teoria dovrebbe essere così – chiude De Nicolao -, ma in Italia ovviamente questo non conta».