«Il tasso minimo di 250 euro al giorno previsto dalla legge trasforma la possibilità di sostituire il carcere con la pena pecuniaria in un privilegio per i condannati abbienti». È netto il giudizio della Corte costituzionale nella sentenza depositata ieri (relatore Francesco Viganò) che riconosce la parziale incostituzionalità di un articolo di legge vigente dal 2003 – applicabile per pene inferiori ai sei mesi di carcere – in quanto viola il principio di uguaglianza e la finalità rieducativa della pena.

Infatti per l’articolo 53, secondo comma, della legge 689 del 1981, modificato dall’articolo 4 della legge 134/2003, il valore giornaliero della pena pecuniaria che sostituisce quella detentiva «non può essere inferiore alla somma indicata dall’articolo 135 del codice penale (250 euro per ogni giorno di carcere da commutare, ndr) e non può superare di dieci volte tale ammontare». Sarebbe come dire che – fa notare la stessa Corte riportando il caso sollevato dal Tribunale di Taranto, che insieme al Tribunale di Ravenna ha portato la questione davanti alla Consulta -, per sostituire la pena di tre mesi di reclusione, un uomo condannato per violenza privata, in seguito al parcheggio della propria auto davanti ad un passo carraio, dovrebbe pagare 22.500 euro: «molto più dei suoi redditi annui».

Insomma, malgrado la stessa legge stabilisca che la pena pecuniaria debba tenere conto anche delle condizioni economiche del reo, 250 euro al giorno, spiega la sentenza, è una quota «ben superiore alla somma che la gran parte delle persone che vivono oggi nel nostro Paese sono ragionevolmente in grado di pagare».

I giudici costituzionali hanno perciò stabilito che «ai 250 euro debbano essere sostituiti i 75 euro già previsti dalla normativa in materia di decreto penale di condanna, fermo restando l’attuale limite massimo giornaliero di 2.500 euro». Perché, fanno notare, «se l’impatto di pene detentive della stessa durata è, in linea di principio, uguale per tutti i condannati, non altrettanto può dirsi per le pene pecuniarie: una multa di mille euro, ad esempio, può essere più o meno afflittiva secondo le disponibilità di reddito e di patrimonio del singolo condannato». Affinché la pena sia proporzionale, dunque, bisogna rispettare la prospettiva di un’eguaglianza “sostanziale” e non solo “formale”, adeguando la pena pecuniaria alle reali condizioni economiche del reo.

La Consulta ha poi ribadito, facendo anche riferimento alla delega parlamentare recentemente ricevuta dal governo, «la stringente opportunità – più volte segnalata da questa Corte – che il legislatore intervenga, nell’attuazione della delega stessa ovvero mediante interventi normativi ad hoc, a restituire effettività alla pena pecuniaria», perché una buona normativa in materia «può costituire una seria alternativa alla pena detentiva», come già avviene in molti altri Paesi.