A Pechino dopo i primi casi di influenza aviaria dei mesi scorsi, tutti predicavano tranquillità. Nessun panico o psicosi, con le autorità cinesi impegnate in un’operazione trasparenza, memori della Sars di dieci anni fa. All’epoca a morire furono tanti (8mila i contagiati, con almeno il 10 per cento dei decessi), anche per colpa di un silenzio complice che il governo impose ai media circa la reale entità del pericolo. Con il crescere dei casi, però, sono aumentate le misure di sicurezza, anche nella vita quotidiana.

Un corridoio spoglio e con le pareti rovinate, rimasugli di pittura a terra, una delle luci che annunciano emergenze, appesa a un filo. È un insegna luminosa pericolante, che quasi cade dal soffitto, costringendo ad abbassare la testa per passare oltre. Poco dopo qualcuno arriverà e comincerà a sistemarla. Il resto del corridoio è buio, tetro. Dopo pochi passi si incontra una minuscola guardina, al di là della quale un uomo con la mascherina chiede i dati e timbra una quantità infinita di carta. È l’universo che mi viene spalancato, una decina di minuti dopo essermi recato in ospedale causa una temperatura corporea piuttosto alta. In ogni ospedale cinese esistono diverse “reception”: quella normale dove vanno quasi tutti e quella “internazionale”, dove finiscono gli stranieri e i cinesi più abbienti. Le prime sezioni sono caotiche e affollate, le seconde sono un po’ più pulite e con meno confusione. I costi sono molti diversi: una visita nella sezione normale può costare 2 euro circa, in quella internazionale anche 40 euro. Appena entrato presso lo sportello “internazionale”, la mia diagnosi scatena l’immediata emergenza: fashao, dico, febbre.

Significa che non posso stare lì e gentilmente vengo scortato fuori dall’ospedale. Attraverso, armato di mascherina e accompagnato da una solerte infermiera, il cortile. Puntiamo decisi verso una struttura adiacente: dall’esterno sembra una vecchia scuola in disuso. Entriamo da una piccola porta dove sono affissi centinaia di volantini; non faccio in tempo a leggere niente, perché il ritmo imposto alla crociera è rapido. L’infermiere dall’altra parte della guardina mi consegna la tessera, pago i 50 centesimi di euro e posso entrare nella stanza delle visite. Un antro, con due medici; c’è una luce soffusa e disordine. Su una scrivania sono appoggiate centinaia di provette. È l’antro della quarantena.

Mi viene misurata la febbre, mi vengono chiesti i sintomi. Finito. Quasi, perché devo tornare alla prima stanza, pagare due euro che mi consentiranno di tornare nella sala dei medici, vedermi circondare il braccio dal primo laccio emostatico che capita; poi mi estraggono il sangue e mi dicono di aspettare. «Mezz’ora», mi viene detto. Nel frattempo posso ragionare su cosa potrebbe succedere nel caso avessi l’aviaria, mentre con gli altri in attesa gli sguardi sono tesi e densi. Nessuno scherza, ride o fuma, un segnale circa la silenziosa agitazione che ci anima.

Per prima cosa posso pensare alla quarantena di questo ospedale a Pechino; è proprio al di là di quella porta che vedo in fondo e probabilmente si snoderà in stanze, piani, attività frenetiche. Vicino a me altre cinque o sei persone, accomodate su sedie di fortuna, mentre l’insegna viene aggiustata, “alla cinese”: significa che in un intervallo di tempo tra un’ora e due giorni ricadrà penzoloni a stagliarsi sulle teste dei potenziali malati di aviaria.

A cosa potremmo pensare, dunque? Che un quinto degli infetti muore. Un quinto guarisce. Un quinto continua ad essere ammalato. Per quanto all’inizio sia le autorità cinesi, sia gli scienziati avessero predicato calma e prudenza, ora invece la nuova influenza aviaria comincia a preoccupare. È il parere anche dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, che ha avvisato: si tratta di una questione seria. Non c’è volontà di diffondere panico, ma secondo gli scienziati mondiali si tratterebbe di «uno dei virus influenzali più letali».

Ad oggi l’influenza H7N9 ha ucciso 27 persone e ne ha infettate più di 125 in Cina: si diffonde da volatili (polli per la maggior parte) all’uomo e pare possa – e da qui deriva la pericolosità – diffondersi anche tra uomo e uomo con il rischio reale di una pandemia, specie in Cina dove le condizioni igieniche di partenza non sono sempre le migliori e dove si sono registrati i casi (uno è di Taiwan, ma avrebbe contratto l’influenza in Cina, durante un viaggio).

L’allarme è arrivato dopo che un simposio di scienziati a Londra ha stabilito la pericolosità del virus. Stando a quanto riportato, gli esperti di virologia hanno ritenuto che gli studi iniziali suggeriscono che il virus possiede diverse caratteristiche preoccupanti, perché si assisterebbe a due mutazioni genetiche che ne rendono altamente probabile una diffusione tra persone. «Più a lungo il virus sarà in circolazione e non sarà monitorato, maggiore sarà la probabilità che questo inizi a trasmettersi da persona a persona», ha specificato Colin Butte, un esperto di aviaria dell’Istituto Pirbright in Inghilterra.
La prima analisi genetica completa del virus è stato pubblicata sulla rivista medica The Lancet mercoledì scorso. Secondo l’articolo – che ha raccolto alcuni tra i principali esperti mondiali di aviaria – il virus potrebbe aver avuto origine dalla miscelazione di virus provenienti da ben quattro diverse fonti, tra cui le anatre. Uno dei maggiori problemi – secondo la redattrice scientifica del Guardian Sarah Boseley, è che «il virus non causa la malattia nei polli, quindi è impossibile sapere quali sono infetti e quali non lo sono». In passato, la Cina ne ha massacrati tanti per sradicare i virus di influenza aviaria H7N9, ma quello attuale è noto per essere presente nei polli in tutte le province della Cina.

Poi arrivano i risultati: senza indugio mi viene comunicato che si tratta di un’influenza normale. Posso uscire, tornare nel reparto internazionale, richiedere la visita del medico e rifare l’esame del sangue. Anziché 2 euro e 50 centesimi anti aviaria, però, stavolta il prezzo è diverso: 45 euro in totale, per sapere di avere un virus intestinale.