La tendenza dei giornali a spararla grossa quando si tratta di nuove terapie non è nuova. Il 23 giugno del 1957 il quotidiano cremonese «La Provincia» titolava nientemeno: «Vinto l’infarto cardiaco con una operazione tanto breve quanto tecnicamente semplice». L’articolo si riferiva alle imprese del professor Battezzati del policlinico di Parma, che per curare l’angina pectoris legava le arterie mammarie al fine di aumentare l’afflusso di sangue verso il cuore. A dire dei pazienti operati, il beneficio era indubbio. Il chirurgo applicava la cosiddetta «tecnica di Fieschi», dal nome del visionario medico di Cremona che l’aveva teorizzata molti decenni prima senza tuttavia metterla in pratica, a causa di un temporaneo ricovero in manicomio. Ci era finito – spiega il quotidiano – per l’invidia dei colleghi, che consideravano ingiustamente strambe le sue terapie sperimentali: ai malati di tetano Fieschi prescriveva il soggiorno in stanze colorate di viola, e faceva tingere di rosso le tende a chi chiedeva farmaci ricostituenti. La «guarigione» di tanti pazienti operati da Battezzati rappresentava la rivincita postuma di un medico «nato troppo presto».

La leggenda di Fieschi e il successo di Battezzati ebbero vita breve: nel 1959 un gruppo di chirurghi statunitensi – senza dubbio invidiosi anche loro – con uno studio sul New England Journal of Medicine mostrò che per osservare lo stesso risultato non era necessario legare le arterie: bastava convincere i pazienti che avrebbero subito l’intervento, effettuare due innocue incisioni sul torace e richiuderle come si fa alla fine di una delicata operazione senza aver fatto alcuna legatura. L’effetto placebo avrebbe fatto il resto. L’infarto non era stato sconfitto, ma i sintomi miglioravano sul serio. Da allora, gli indizi che l’effetto placebo funziona anche per via chirurgica si sono moltiplicati e riguardano soprattutto le dolorose patologie a carico di ossa e articolazioni. Ma finora la pratica medica non ne ha tenuto troppo conto, a giudicare dal gran numero di interventi al ginocchio tuttora praticati.

Il tema è stato rilanciato pochi giorni fa da Jeremy Howick, direttore del Centro di eccellenza per le cure empatiche dell’università di Leicester (Regno Unito) in un intervento sul sito di divulgazione scientifica The Conversation. Secondo Howick, la chirurgia fake offre molti vantaggi: a fronte di benefici clinici ormai acclarati, costa meno al servizio sanitario e comporta rischi inferiori per i pazienti. Non tutti sono d’accordo per evidenti questioni bioetiche: qualunque medico dovrebbe rifiutare una terapia basata sull’inganno del paziente; inoltre, incidere un paziente senza effettuare un intervento chirurgico rappresenta una violazione patente del giuramento di Ippocrate.
Howick ribatte che la chirurgia finta funziona persino se il paziente è consapevole che non riceverà alcun intervento interno. I benefici non nascerebbero dall’inganno ma dalla naturale predisposizione dell’organismo a rigenerarsi dopo un taglio e agli analgesici che da soli facilitano il recupero di arti e articolazioni malate. Perciò suggerisce di non chiamarla «placebo» ma «chirurgia di minima invasività» facendo sparire tutti i problemi bioetici.

Anche se può sembrare un’astuzia linguistica, la proposta riflette un cambiamento di paradigma assai più ampio. Fino a poco tempo fa, una terapia che comportasse gli stessi benefici di un placebo era ritenuta fallimentare. Oggi sempre più medici pensano che un placebo con la stessa efficacia di un farmaco non segnali un fallimento, ma la presenza di un meccanismo ancora ignoto, assai reale e tutto da studiare.