Mentre a Zaporizhzhia, nell’Ucraina occupata dai russi, per la prima volta nella storia assistiamo all’uso militare di un impianto nucleare civile utilizzato come scudo con la minaccia di innescare un incidente, da noi il dibattito sul nucleare è ripartito grazie a Calenda e Salvini.

Federico Rampini sul Corriere (del 25 scorso) fa un quadro internazionale ma omette alcuni aspetti cruciali. Se in California il dibattito si concentra se tenere aperta la centrale di Diablo Canyon – costruita su una faglia sismica – la situazione della tecnologia nucleare negli Usa è in profonda crisi. Come abbiamo già ricordato su queste pagine, il “Rinascimento Nucleare” fu lanciato da George W. Bush nel 2001. Da allora nessun nuovo reattore è stato costruito in quel Paese: dei quattro AP1000 in costruzione due sono stati cancellati e due sono in costruzione a costi astronomici, mentre l’azienda proprietaria della tecnologia – la nippo-americana Toshiba-Westinghouse – è fallita nel 2017.

In Francia l’unico nuovo reattore Epr in costruzione in quel Paese dal 2007 non è stato ancora completato e presenta costi oltre i 19 miliardi di euro. Dopo un incidente in Cina in uno dei due unici funzionanti al mondo, sono emersi problemi di progettazione per cui si parla già di una nuova versione da sviluppare, l’EPR2. Il “memorandum” Berlusconi-Sarkozy del 2008 prevedeva la costruzione di ben 4 Epr, progetto poi bloccato dal referendum del 2011. L’attuale blocco di oltre metà dei reattori francesi sia per problemi di corrosione che per la siccità e la relativa carenza idrica per raffreddare gli impianti completa un quadro di “profondo rosso” del settore, di cui la rinazionalizzazione di Edf è una conseguenza.

Dunque, né negli Usa né in Francia il movimento antinucleare ha avuto una reale responsabilità: la tecnologia nucleare in Occidente (cioè francese e americana) ha fallito da sola. In Germania, dove invece come in Italia il movimento antinucleare ha giocato un ruolo decisivo, il dibattito se mantenere aperte le ultime tre centrali riguarda una quota marginale di risparmi di gas (il 2 per cento) che non è molto utilizzato nel settore elettrico. In Giappone a undici anni da Fukushima solo 10 dei 54 reattori sono tornati in funzione e gli annunci roboanti del premier Kishida non sembrano molto credibili.

Tornando all’Italia, e a proposito dell’”Agenda Draghi”, giova ricordare che il suo governo, rispondendo alla consultazione della Commissione Europea sulla Tassonomia, rispondeva che «rispetto all’energia nucleare, la produzione di elettricità da questa fonte energetica è proibita nel nostro Paese» citando i 2 referendum già svolti. Peraltro, non è chiaro quale grande azienda butterebbe i suoi soldi su una tecnologia in crisi profonda in occidente (o forse qualcuno pensa di invitare i russi o i cinesi a fare da noi i loro reattori?).

Rampini ci ricorda che anche l’auto elettrica, se alimentata da centrali a carbone, non fa che spostare l’inquinamento dalle città ai camini della centrale. Ma in realtà il mix di fonti energetiche nel settore elettrico già oggi presenti sia in California che in Europa, grazie anche alla quota di rinnovabili in crescita, rende l’auto elettrica comunque molto meno inquinante di quelle convenzionali. La vera posta in gioco per il futuro è proprio sulle rinnovabili, sistemi di accumulo, mobilità elettrica, e in prospettiva idrogeno verde e suoi derivati. È su questo che si sta concentrando la gara tra Usa, Europa e Cina, ed è su questo terreno che si ridefiniranno i nuovi equilibri, speriamo evitando pericolosissimi conflitti armati.

Dopo l’annuncio dell’amministrazione Biden della Legge sulla Riduzione dell’Inflazione, che comprende anche investimenti importanti nelle rinnovabili il cui costo era già competitivo prima della crisi attuale, il commento di parte cinese (tweet di @MFA_China del 16 agosto) è stato positivo ma con una domanda: gli Usa sono in grado di realizzare questi investimenti (sottinteso, senza la Cina)? Gli scenari sono almeno due: uno di competizione per chi conquista i nuovi settori, l’altro di cooperazione e di scambio. Allo stato delle cose oggi il primo appare più probabile. Ma, per combattere la crisi climatica, il secondo è il più auspicabile.

*direttore Greenpeace Italia