Qualche giorno fa la stampa afgana ha polemizzato con Ashraf Ghani perché il presidente non aveva incontrato, durante l’ultimo vertice della Nato, Trump che tra l’altro – al contrario di quanto avveniva con Karzai – non lo ha mai ricevuto alla Casa bianca. Eppure, se è vero quel che riporta il New York Times citando per ora fonti anonime, qualcosa sta cambiando radicalmente nella politica americana nella guerra più lunga del secolo.

PER IL QUOTIDIANO il presidente avrebbe autorizzato i suoi diplomatici a cercare la strada per avere colloqui diretti con la guerriglia. Una cambio di strategia a 360 gradi visto che finora i negoziati diretti – come chiedevano i talebani – son sempre stati rifiutati da tutte le amministrazioni americane. Agli inizi del mese il segretario di Stato Mike Pompeo è stato a Kabul e con la sua visita sarebbe iniziato un lavorio diplomatico sotto traccia.

È una novità relativa perché in realtà, anche se mai ufficializzati, incontri tra funzionari americani e talebani ci sono già stati ma, questa volta, non si tratterebbe di cercare contatti informali. Questa volta gli americani sarebbero disposti – se l’indiscrezione diventerà realtà – a sedersi al tavolo con la guerriglia in turbante. Una svolta clamorosa che potrebbe mutare davvero il corso della guerra. Le domande legittime sono due: la prima – senza risposta – è cosa passa davvero per la testa a Trump, uomo ondivago e umorale disposto a contraddire ciò che ha detto il giorno prima.

LA SECONDA È: PERCHÉ? E qui tutte le ipotesi sono valide. La prima è che la strategia decisa l’estate scorsa – più uomini e più bombe – non ha dato i frutti sperati. Anzi. Gli americani hanno triplicato i raid e ucciso più civili dall’aria di quanto sia mai stato fatto dal 2009. Con nessun risultato salvo diminuire il consenso e far contenti i costruttori di velivoli che dovrebbero vendere a Kabul 159 elicotteri Black Hawk. La seconda è che nemmeno la strategia del muso duro col Pakistan ha cambiato il corso della guerra. La terza è che il successo della tregua di tre giorni tra governo e talebani per la festa di Eid (fine del Ramadan) ha fatto intravedere uno spiraglio.

La quarta è che la guerra costa soldi (almeno un paio di trilioni di dollari già spesi) e vite umane (2.297 vittime tra i soldati Usa) senza alcun ritorno economico. La quinta è infine che in campagna elettorale Trump aveva promesso il ritiro e, da presidente, una rapida vittoria che appare davvero lontana. L’insieme di questi fattori può aver dato la stura a un cambio di strategia spinto anche da un probabile ammorbidimento di Islamabad e dalle difficoltà per i talebani, più interne che militari: divisi su più fronti e con molti padrini cui dare retta in cambio del loro portafogli. Infine, nel Paese è ormai diffuso un movimento contro la guerra che ha avuto il suo culmine (senza per questo finire) nella marcia per la pace da Helmand a Kabul (700 km in 38 giorni).

PROSEGUONO I SIT IN e l’appoggio della popolazione in città e nelle campagne: il segno che la guerra è forse arrivata al suo punto di non ritorno. Un punto di non ritorno che si sostanzia di cifre: l’ultimo rapporto annuale di Unama, la missione Onu di Kabul, diceva che il 2017 si è chiuso con 3.438 morti e 7.015 feriti tra i civili, con un piccolo decremento del 9% rispetto al 2016. Un decremento subito smentito dai dati dei primi sei mesi del 2018 che hanno già contato 1.692 civili uccisi e 3.430 feriti.

SE IL BUON SENSO dovesse prevalere le cose potrebbero cambiare anche se un punto chiave rimane il più difficile da negoziare. Gli Usa hanno il permesso di utilizzare una decina di basi aeree afgane da cui possono controllare due nemici storici: Iran e Russia.

Per tenere sotto controllo le basi, tenere in piedi quella gigantesca di Bagram, garantire il ricambio a piloti e magazzinieri servono soldati. Migliaia. E su questo punto il negoziato diventerebbe davvero caldo.

Non si tratterebbe cioè solo di far ritirare i contingenti Nato ma di mandare a casa anche i soldati americani che controllano le basi. Russi e iraniani ne sarebbero felici. I generali a Washington un po’ meno. Ma almeno avviare colloqui servirebbe a far tacere i fucili.