A maggio è successo due volte: due comuni turchi – Derince e Bursa, entrambi controllati dall’Akp, il partito del presidente Erdogan – hanno cancellato i concerti della cantante Aynur Dogan perché «inappropriati». Una messa al bando che nel secondo caso ha fermato altri musicisti e che in ogni caso non è un’eccezione nel panorama censorio turco.

Aynur Dogan è una delle più note cantanti curde del paese. Vincitrice di premi internazionali (il World Music Expo Award nel 2021 lo dedicò alle madri curde) e tra le voci più seguite e amate in Turchia, canta in curdo e canta melodie di una tradizione che per decenni, ufficialmente fino al 1991, lo Stato ha tentato di occultare vietando di parlarne la lingua nella vita quotidiana, pena il carcere.

Dagli anni Novanta la realtà è cambiata poco: i divieti ritornano pelosi, sotto forma di cancellazioni di concerti, album messi all’indice (a Dogan è successo nel 2004 con «Kece Kurdan», accusata di promuovere il separatismo), contestazioni pubbliche o campagne d’odio sulle piattaforme social. Lo scorso agosto l’università di Mardin ha cancellato l’esibizione della soprano curda Pervin Chakar (una che si esibisce ovunque, da Vienna alla Scala di Milano) e la municipalità di Bursa quella del cantante folk curdo Mem Ararat «a tutela della pubblica sicurezza». Ad aprile un giovane è stato brutalmente picchiato dalla polizia a Van perché stava canticchiando in curdo per la strada.

«La vita è in costante sviluppo, se ignori tale sviluppo ignori la natura. Ogni cultura e ogni società ha il diritto di esistere. La cultura e la società curde hanno lo stesso diritto delle altre e questo non dovrebbe spaventare. Sappiamo tutti che l’incontro tra culture è un antidoto ai pregiudizi», spiega al manifesto Aynur Dogan, alla vigilia del concerto che terrà giovedì 8 settembre al Chiostro Grande della Certosa di San Giacomo a Capri, apertura della seconda edizione del Festival di Capri.

«Sono cresciuta in montagna, con la musica tradizionale delle montagne – continua – La mia musica è sempre stata un riflesso della mia vita. Quando mi sono trasferita a Istanbul, da adolescente, mi sono ritrovata in un melting pot, in mezzo a ogni tipo di cultura e di musica. Ascoltavo blues, jazz, rock, reggae, classica e scoperto le connessioni tra loro». Connessioni, dice, che sono «il riflesso dei legami tra popoli», impossibile da negare: «Ogni persona deve poter essere ciò che è: se sei nata curda, africana, cinese o siriana, russa o americana, nessuno dovrebbe giudicarti in base alla tua eredità».

Nel caso della cultura curda in Turchia, la repressione non cessa, assume mille forme: quelle invisibili dell’assimilazione, quelle palesi delle sbarre di una cella, quelli odiosi della censura: «Nell’ultimo secolo i curdi sono stati usati come una pallina da ping pong dai vari partiti. Chi cala nei consensi mina la società curda, la attacca, fino a essere eletto». Ma i curdi continuano a cantare.