Non è autodifesa, è un massacro: con questa convinzione, una parte consistente dell’America latina prende apertamente posizione contro Israele, marcando di nuovo e in maniera più netta – dopo i distinguo sulla guerra in Ucraina – la propria distanza da Stati uniti ed Europa.

La posizione più drastica l’ha assunta il governo boliviano di Luis Arce, che martedì ha annunciato la propria decisione di rompere le relazioni diplomatiche con Israele, «come segno di rifiuto e condanna dell’aggressiva e sproporzionata offensiva militare israeliana nella Striscia di Gaza», secondo le parole del viceministro degli esteri Freddy Mamani.

Una posizione sostenuta con durezza anche dinanzi all’Assemblea generale delle Nazioni unite, dove l’ambasciatore boliviano all’Onu Diego Pary ha invitato a non confondere gli aggressori con le vittime: «La potenza occupante, l’aggressore, il genocida è Israele».

Sempre martedì, nel giro di poche ore, anche Cile e Colombia si sono pronunciati sul conflitto, richiamando i loro ambasciatori a Tel Aviv. Ma in entrambi i casi non si tratta di una sorpresa. Già lo scorso anno il presidente Gabriel Boric si era rifiutato di ricevere l’ambasciatore di Israele Gil Artzyeli per dargli le lettere credenziali, in segno di protesta contro le ripetute uccisioni di minori in Cisgiordania e a Gaza da parte israeliana. Ma allora, di fronte alle furiose polemiche che ne erano derivate, aveva fatto rapidamente marcia indietro.

Stavolta però non c’è stato arretramento: «Abbiamo deciso di richiamare per consultazioni l’ambasciatore in Israele, Jorge Carvajal», ha scritto Boric su X, condannando «energicamente» quella che ora è diventata «una punizione collettiva alla popolazione civile palestinese», senza alcun rispetto per «le norme fondamentali del diritto internazionale, come dimostrano le oltre ottomila vittime civili, in gran maggioranza donne e bambini».

E tantomeno desta meraviglia l’analoga posizione assunta dal governo colombiano, le cui relazioni con Israele erano già ai ferri corti da quando Gustavo Petro, l’8 ottobre, aveva posto sullo stesso piano «l’immensa ingiustizia che il popolo palestinese ha subito dal 1948» e «l’immensa ingiustizia che il popolo ebraico ha subito dai nazisti in Europa dal 1933». Una dichiarazione a cui Israele aveva risposto accusando Petro di antisemitismo e annunciando la sospensione delle «esportazioni in Colombia di materiale sensibile di sicurezza». Il presidente colombiano, tuttavia, non aveva fatto una piega: «Se dobbiamo rompere le relazioni con Israele le romperemo. Non sosteniamo i genocidi».
Critiche a Israele sono arrivate anche dal presidente cubano Díaz-Canel, il quale si è scagliato contro «una certa indignazione selettiva che si rifiuta di riconoscere la gravità del genocidio» contro i palestinesi, e dal governo venezuelano, che sempre martedì ha espresso una dura condanna della strage nel campo profughi di Jabaliya.

Ma neppure il Brasile si è schierato con Israele: venerdì Lula ha spiegato che, in linea con la visione dell’Onu, il Brasile non riconosce Hamas come organizzazione terroristica (pur essendo tale l’attacco del 7 ottobre) e ha denunciato la «folle» pretesa di Netanyahu di «distruggere Gaza dimenticando che lì non ci sono solo soldati di Hamas, ma donne e bambini».

In tal senso il Brasile, che ha presieduto fino a martedì il Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite, non ha davvero risparmiato sforzi per fermare il massacro. Il veto degli Usa, tuttavia, si è abbattuto anche sulla sua proposta di risoluzione, che pure condannava gli «atroci attacchi terroristi di Hamas», ma chiedendo una pausa umanitaria nel conflitto per consentire l’accesso degli aiuti umanitari e la revoca dell’ordine di evacuazione di tutti i civili della zona nord della Striscia di Gaza.