I Talebani hanno aspettato l’11 settembre per issare la loro bandiera sull’Arg, il palazzo presidenziale di Kabul conquistato già il 15 agosto. Uno schiaffo simbolico agli Stati Uniti, che secondo un’inchiesta condotta dai giornalisti del New York Times hanno chiuso la loro ventennale presenza in Afghanistan con una strage di civili, il 29 agosto.

NELLA CAPITALE AFGHANA i turbanti neri celebrano la sconfitta del grande nemico assumendo le redini dei ministeri assegnati giorni fa: «siamo al governo, voi ormai lontani». Mentre torna a farsi sentire anche il numero uno di al-Qaeda, l’egiziano Ayman al-Zawahiri, con un video di 61 minuti in cui celebra l’anniversario dell’attacco alla «testa del serpente» e fa riferimento ad avvenimenti piuttosto recenti, anche se non alla conquista dell’Afghanistan da parte dei Talebani.
La loro bandiera sull’Arg, da cui è fuggito l’ex presidente Ashraf Ghani, ha un forte valore simbolico. E di gesti simbolici gli studenti coranici riempiono i canali della propaganda. Vogliono mostrarsi diversi dal vecchio e corrotto governo della Repubblica islamica, ormai defunta. Così, sui canali social viene lodato il taglio delle spese nel palazzo presidenziale: una volta, recita la propaganda, qui si facevano follie.

OGGI SI MANGIA RISO e verdure. Per tutti è lo stesso pasto. Non ci sono differenze. Anche gli abiti dei leader, a partire dal primo ministro mullah Hassan Akhund, sono indicativi di moderazione e saggezza. L’opposto rispetto alla vecchia amministrazione, che aveva fatto arricchire un’elite che godeva di ville con sauna, piscine, comfort sconosciuti alla popolazione. Insistono molto su questi punti, i Talebani. E provano a rafforzare la presa sulla gente semplice. Grandi mobilitazioni di sostegno al nuovo Emirato sono state organizzate ieri a Herat, anche nella moschea principale. Nei giorni scorsi in altre città importanti come Kandahar, storica roccaforte del movimento e prima ancora cuore pashtun della nascita dello Stato afghano.

VIA LA CORRUZIONE, assicurano. Via il crimine, dimostrano i video con presunti ladri, presi e trasportati via. E via i tossicodipedenti. In alcune città sono cominciate le ronde per “raccoglierli”. Per farne cosa, non è chiaro. Due giorno fa Sirajuddin Haqqani, leader della rete omonima responsabile di atroci attentati contro i civili, si è insediato come ministro dell’Interno, dopo aver promulgato il divieto di tenere manifestazioni. Di fronte a decine e decine di funzionari e simpatizzanti, ha sostenuto che la sicurezza dipende dalla collaborazione dei cittadini. Per qualcuno, un invito alla delazione. E ha assicurato che i poliziotti saranno al servizio del popolo. Poche ore prima i giornalisti afghani erano stati frustati perché svolgevano il loro lavoro. Dal ministero delle Finanze è invece arrivato l’ordine a tutti gli impiegati di sesso maschile di tornare al lavoro.
Chi non la fa rischia il licenziamento. Non vale per le donne, che devono restare a casa in attesa che gli uffici vengano sistemati. Il contratto sociale che i Talebani propongono è sicurezza in cambio della libertà. Troppo simile a quello degli anni Novanta, per molti afghani e afghane.

NON POTRÀ REGGERE se l’economia continuerà a cadere in picchiata. Un rapporto di tre giorni fa del Progamma per lo sviluppo delle Nazioni Unite prevede uno scenario drammatico, se la tendenza in corso non dovesse essere invertita. La percentuale di popolazione sotto la soglia di povertà potrebbe raggiungere il 97 per cento. In termini tecnici, è povertà universale. Anche per questo il segretario generale dell’Onu ha convocato una riunione per domani, 13 settembre. Serve uno sforzo economico da parte della comunità internazionale. Che secondo il portavoce dei Talebani e vice ministro all’Informazione e alla Cultura, Zabihullah Mujahid, prima o poi riconoscerà il nuovo Emirato.

RINATO DOPO VENTI ANNI di occupazione militare da parte degli Usa. Che, come anticipato anche su questo giornale, hanno concluso la loro presenza nel Paese con una strage di civili.
Il 29 agosto il presunto attentatore suicida che secondo l’intelligence di Washington guidava una macchina imbottita di esplosivo ed era diretto all’aeroporto di Kabul, già colpita il 26 agosto da un attentato suicida, era invece un funzionario di Nutrition and Education International, Ong con sede negli Stati Uniti. Con l’auto, una Toyota corolla, non si dirigeva all’aeroporto. Tornava a casa da lavoro, dopo aver accompagnato i colleghi.
Nell’auto, taniche piene di acqua per i vicini, residenti di un quartiere in cui scarseggia. Zemari Ahmadi, insieme a 9 altre persone tra cui 6 bambini è stato ucciso da un missile Hellfire sganciato da un drone Reaper MQ-9. Quattro giorni prima il suo datore di lavoro aveva fatto richiesta per farlo espatriare. Voleva andare negli Stati Uniti.