Ogni popolo normalizza a modo suo: se tanti emiratini avevano celebrato sui social l’Accordo di Abramo tra Israele e Abu Dhabi della scorsa estate pregustando un viaggio a Tel Aviv, se molti bahraniti avevano invece veementemente protestato online quello tra Manama e lo Stato ebraico, i sudanesi salgono di livello. E scendono in piazza.

Non appena Donald Trump ha annunciato, venerdì, l’accordo di normalizzazione dei rapporti tra Sudan e Israele (in cambio della rimozione del paese africano dalla lista degli Stati sponsor del terrorismo, atto definito ieri dall’Iran «un’estorsione»), a Khartoum la gente ha protestato.

Bruciate bandiere israeliane, cantati slogan contro l’accordo («No alla riconciliazione con gli occupanti, staremo sempre al fianco della Palestina»), rinnovata la solidarietà al popolo palestinese.

Ma contrarietà giunge anche dai partiti politici del paese africano, immerso in una fase di transizione costata sangue e fatica dopo le proteste popolari che hanno portato, con un golpe militare, alla cacciata e all’arresto del trentennale dittatore Omar al-Bashir.

Solo dopo mesi di stragi di piazza da parte di militari e paramilitari e sfiancanti negoziati, nel luglio 2019 è nato un governo di transizione misto, civil-militare, di durata triennale. Che oggi i principali partiti colpiscono nel suo tallone d’Achille: un esecutivo non eletto dal popolo ma solo chiamato a condurlo verso nuove elezioni non ha il potere di normalizzare nulla.

Tra i primi a reagire è stato, in una nota, il Popular Congress Party, parte della federazione civile denominata Forces of Freedom and Change (Ffc) ed espressione delle varie anime delle piazze sudanesi: «La nostra gente, sistematicamente isolata e marginalizzata dagli accordi segreti, non è tenuta a rispettare l’accordo di normalizzazione – si legge – Continuerà a tenere le sue storiche posizioni, a lavorare per resistere alla normalizzazione e a sostenere il popolo palestinese».

Contrari anche Sadiq al-Mahdi (a capo del Partito Umma nonché ultimo premier eletto prima del golpe di Bashir nel 1989) che parla di violazione della legge interna e il Partito Baath, anche questo parte della Ffc, che ha anticipato un possibile ritiro della fiducia al governo di transizione.

Insomma, l’aria che tira non è la migliore per il premier Abdallah Hamdock e per il capo del consiglio di transizione, il generale Abdel Fattah al-Burhan, considerato l’uomo dietro l’accordo.

Anche per questo ieri il ministro degli esteri Gamareldin gettava acqua sul fuoco: l’accordo, ha detto, «sarà deciso dopo aver realizzato le istituzioni costituzionali, attraverso la creazione del consiglio legislativo». Tutto rinviato? Si vedrà: le elezioni sono previste per il 2022 e di consigli legislativi non c’è ombra.

Di certo Khartoum di tutto ha bisogno tranne che di un’altra crisi: le piazze, appena pochi giorni fa, erano ancora piene dello stesso popolo che, come tra il 2018 e il 2019, chiede riforme reali e migliori condizioni di vita.