Erano soprattutto donne quelle che venerdì sono scese in strada a Khartoum e a Omdurman con piccoli cartelli con la foto e il nome di un desaparecido, uno scomparso nella brutale repressione del 3 giugno.

In migliaia hanno partecipato, due giorni fa, al sit-in che chiede verità sugli 11 sudanesi (numero al ribasso, quello finora accertato) spariti durante la distruzione dell’accampamento permanente che dal 6 aprile aveva prima ottenuto la caduta del presidente Omar al-Bashir e poi proseguito la mobilitazione per un governo civile.

Quel giorno le Rapid Support Forces, paramilitari legati al Consiglio di transizione militare, massacrarono 127 persone; molti corpi riemersero dal Nilo il giorno dopo. Di 11 manifestanti non si hanno notizie e, nonostante l’accordo apparentemente andato in porto tra giunta e opposizioni civili, di inchieste nemmeno l’ombra.

Intanto ieri nella capitale sudanese Bashir è stato ufficialmente accusato di corruzione e possesso illecito di valuta straniera. E lui ha confermato: ha ricevuto 65 milioni di dollari dal re saudita Abdullah (morto nel 2015) e poi 25 milioni dal principe ereditario Mohammed bin Salman.

«Era impossibile presentare quei soldi al ministero delle Finanze o alla Banca centrale – ha detto Bashir – Avrebbero chiesto chiarimenti». Altra prova del ruolo delle monarchie del Golfo nel Sudan della dittatura, affatto evaporato: i leader della giunta militare hanno più volte incontrato il «padrino» MbS e il suo vassallo egiziano, al-Sisi.