Malgrado gli sforzi militari e gli investimenti francesi nella regione, non sembra darsi per vinto l’arcipelago jihadista attivo in Mali (dove si vota a urne blindate il prossimo 29 luglio) e nei paesi limitrofi. Ieri l’ultimo attacco kamikaze ha colpito un simbolo della campagna militare multinazionale in corso per restituire il controllo di ampie regioni del nord e del centro del paese al governo di Bamako.

A Sévaré, già avamposto delle truppe di élite francesi ai tempi dell’operazione Serval, un’autobomba camuffata da mezzo delle Nazioni unite è stata lanciata contro il quartier generale del G5 Sahel, il contingente a cui contribuiscono le forze armate di Niger, Ciad, Mauritania, Burkina Faso e Mali. Una forza ispirata da Parigi e che in teoria oltre a contrastare il terrorismo dovrebbe controllare i flussi migratori verso l’Europa (Macron ha ottenuto a questo proposito la partecipazione Ue alle spese).

La forte esplosione che secondo alcuni testimoni ha squarciato il muro di cinta della base, proiettando il veicolo all’interno, avrebbe provocato almeno 6 morti tra il personale militare e decine di feriti, alcuni in condizioni disperate. Secondo una fonte militare una parte degli edifici della base sono crollati e non è chiaro se all’interno ci siano altre vittime.

In passato i militari del G5 Sahel erano già stati oggetto di attacchi e agguati, ma questo è la prima volta che finisce nel mirino la base di Sévaré. L’attacco non è stato ancora rivendicato, ma potrebbe trattarsi della risposta all’operazione – comunicata ieri dallo Stato maggiore francese – in cui truppe della missione Barkhane avrebbero «neutralizzato» lo scorso 22 giugno 15 jihadisti nella regione di Inabelbelo, a nord-ovest di Timbuctu.