Chapeo è una parola intraducibile che abita il mondo caribeño. Ha a che fare con lo strappare le erbacce, rastrellare i campi di canna da zucchero o ripulire un terreno. Ma la parola custodisce una porta girevole che apre su un altro territorio semantico, irrorandosi di seduzione, raggiro, ricatto lascivo e tutte le strategie emotive e sessuali che i corpi dei Caraibi mettono in campo di fronte a uomini e donne di quello che una volta si faceva chiamare «primo mondo». E qui entra in scena Johan Mijail.

Performer, ricercatore sociale e scrittore, questo attivista queer nato a Santo Domingo nel 1990, ha fatto del chapeo una risorsa su cui costruire una immaginifica indagine postcoloniale. Chapeo è anche il titolo del suo libro, romanzo dalla scrittura barocca e vertiginosa, magistralmente tradotto da Raúl Zecca Castel e da poco uscito nelle librerie per le Edizioni Arcoiris (pagg.111, euro 12).

Il protagonista e il suo amico Luis girano alla ricerca di qualche avventura sessuale e il loro vagabondare è l’affresco di una città caotica e inquieta, diseguale e mozzafiato. Il protagonista ha pure la mania di parlare troppo, facendo scappare gli amanti. Nelle sue conversazioni entrano ed escono Michel Foucault e l’esperta d’amore La Bella Chanel, Édouard Glissant e la celebrità televisiva Amelia Alcántara, il merengue urbano di Omega El Fuerte e la scrittrice Aida Cartagena Portalatín. E soprattutto una folla di presenze che si prendono e lasciano il corpo come solo la santeria sa fare in «quella prigione che sono i Caraibi».

Ci racconta Johan Mijail: «Attorno al chapeo, c’è un mondo legato ai corpi, che è uno spazio di relazioni economiche ma anche una sfera culturale e dell’immaginario, al di là della classica prostituzione: penso ai bugarrones, uomini che non sono gay ma cercano sesso con uomini gay; i sanky panki, quelli a caccia di prede nelle spiagge e fanno i macho se trovano turisti uomini e romantici con le donne». È un mondo che si alimenta di mille rivoli, «sempre legato a una trattativa, che negozia insieme i fili dell’economia, della sensualità e della sessualità».

Lo spartiacque a livello comunicativo sono state le megadivas, continua lo scrittore, un gruppo di ragazze dei sobborghi che nei primi anni del secolo facevano concerti sul malecón e avevano la sfrontata aspirazione di diventare le amanti di politici, sportivi, attori e impresari ricchissimi che le potessero riempire di regali e una vita lussuosa: il loro chapear era la possibilità di rastrellare una via di fuga nella scala sociale e di catapultarsi in alto. «Io provo a capovolgere il terreno semantico di questi riferimenti. E nel farlo, lo sento come un atto di rivendicazione per questo mio corpo afrodominicano. Provo a capire come la grammatica della sensualità caraibica riesca a penetrare il soggetto egemonico per indurlo a distribuire la ricchezza verso un soggetto subalterno».

È il risultato di un precipitare storico di depredati e aggressori. A uscire è tutta la trama coloniale che ha seminato il corpo latinoamericano così in profondità da sembrare incancellabile. Il lavoro di Johan Mijail vuole mettere a valore l’intero capitale culturale dei Caraibi come possibilità di riscatto. Non ci sono discorsi di emancipazione; scompare la soggettività gay, bianca ed europea, e il conformismo dei suoi canoni estetici e politici: qui si ravvivano solo scintille di sovversione.

Per farlo, Johan Mijail si appella a ciò che possiede. Il suo corpo nero e caraibico, la sua genealogia attraverso una catena familiare di donne disobbedienti, la memoria della schiavitù e dei cimarrones liberi e ribelli, ma soprattutto i misterios.

«Mia nonna e mia madre preparavano gli altari e accendevano una montagna di candele: mi hanno insegnato i segreti di una cultura ancestrale. Per me sono i codici con cui squadernare le mie identità, rompere la linea del tempo per entrare in una dimensione trans-historica, connettermi con la resistenza e i saperi dei miei antenati. È la memoria dissidente delle identità di genere. Farmi abitare dai misterios mi ha fatto sentire fin da subito un gran peso: era il peso dell’oppressione». E così può parlare con la voce di Filomena alias Numana alias Santa Marta, la metresa africana o con Anaisa aka Santa Ana, la vergine bianca.

Che la scrittura di Johan Mijail sia di per sé performance è una realtà che attraversa ogni pagina: «Ho studiato con Josephina Baez, la storyteller e performer dominicana; nei suoi workshop di ’autologia della performance’, mi ha insegnato a connettere parole e corpi». Certo, a leggere Chapeo, vengono in mente la letteratura lisergica di Rita Indiana, altra icona dominicana («Mi ha insegnato come sviscerare il racconto urbano») e il funambolismo narrativo del cileno Pedro Lemebel («Quando mi ha visto la prima volta a Santiago del Cile ha chiesto: «E questa dove da dove sbuca?» E gli ho risposto: «Dall’Africa». È stato un incontro speciale»). E poi aggiunge il corpo nero di Carmen Berenguer e il barocco meraviglioso e triste di José Lezama Lima.

Le pagine di Johan Mijail fanno deflagrare tutta la queerness e ci fa capire perché sia potente e popolare il discorso trans-femminista e queer latinoamericano, così familiare eppure così lontano dagli orizzonti del perbenismo (anche Lgbt) europeo.