Nella week from hell la settimana infernale di Joe Biden, è arrivato anche il giorno dell’intervista “riparatoria”, i 22 minuti di fuoco amico con George Stephanopoulos, che prima di essere mezzobusto della Abc fu portavoce della Casa bianca di Clinton.

Argomento unico: la competenza del presidente e la sua capacità di portare a termine una campagna vincente contro Trump.

Nello specifico il giornalista ha chiesto se si sarebbe sottoposto al test neurologico auspicato da molti. Biden ha risposto di non averne bisogno dato che il suo test quotidiano è la gestione degli affari di stato.

Il presidente ha escluso ogni ipotesi di ritiro. «Anche se glielo chiedessero i suoi sostenitori più stretti?». «Forse se me lo chiedesse iddio onnipotente», è stata la battuta calibrata forse per proiettare una disinvolta sicurezza ma che, come gran parte dell’intervista, ha prodotto invece una sensazione di distacco dall’effettiva entità del problema.

ANCORA più problematica è stata la risposta all’eventualità di una sconfitta. «Se avrò dato il meglio di me, me ne farò una ragione», ha risposto Biden sembrando gravemente sottovalutare le conseguenze di una presidenza Trump prodotta da una mal riposta testardaggine personale.

Confrontato coi sondaggi che lo danno oggi in deficit di sei punti (quattro anni fa, ne aveva dieci di vantaggio sullo stesso avversario) ha semplicemente risposto «Non sono i numeri di cui disponiamo internamente».

Nell’insieme una performance giudicata insufficiente dal pubblico target, il partito nel quale sono sempre più visibili crepe nel sostegno al candidato. Mike Quigley, parlamentare dell’Illinois, ha fatto il giro dei talk show valutando «inquietanti» alcune parti dell’intervista ed invocando apertamente un passo indietro. Ieri la sua collega del Minnesota, Annie Craig, è diventata la quinta parlamentare ad associarsi pubblicamente a questa posizione. (Oggi il gruppo Dem si riunirà al Congresso per «discussioni»).

MA LA SENSAZIONE di rovina che grava ormai sul partito va oltre il semplice appello dei “dissidenti”. La partita è invincibile per Biden, che per fugare i dubbi potrebbe solo ringiovanire di 5 anni (i confronti video che circolano in rete fra i suoi discorsi di oggi e quelli di quattro anni fa sono inappellabili). Si va insomma consolidando un senso di premonizione sul partito entrato in un vortice inesorabile il giorno del dibattito infausto. Un effetto valanga inarrestabile in cui si accumulano strafalcioni e gaffe ingigantiti dal microscopio cui è sottoposto il presidente ottuagenario.

UNO SCENARIO doloroso, familiare a chiunque si sia trovato dover sottrarre le chiavi dell’auto ad un anziano parente, con il rischio annesso di un litigio in famiglia. Al coro crescente di opinionisti democratici critici come Maureen Dowd, Anne Applebaum e Paul Krugman, fa riscontro la postura sempre più difensiva e risentita dei lealisti.

Rischiano di riaffiorare, ad esempio, antichi rancori con gli obamiani che otto anni fa scavalcarono il vicepresidente Biden per candidare Hillary Clinton. I bidenisti, da canto loro, accusano già di tradimento i dissidenti (e a volte la sinistra del partito, rievocando la spaccatura con Bernie Sanders).

Ancora più preoccupanti le conseguenze pratiche del malcontento diffusosi nella roccaforte dei finanziatori hollywoodiani. Ieri il mogul Barry Diller si è associato al boicottaggio dei contributi fin quando Biden rimarrà candidato, lanciato da Abigail Disney.

Un ritratto di famiglia sull’orlo di una crisi di nervi che affronta l’incubo peggiore a quattro mesi dalle elezioni e con un Trump risorgente. Quest’ultimo sembra soddisfatto in questi giorni di lasciare la scena ai guai degli avversari, ma è indicativo che abbia iniziato ad inserire in rotazione attacchi a Kamala Harris, come potenziale nuova avversaria.

È infatti la successione che si profilerebbe come prossimo passo. Nella girandola delle ipotesi (praticabile solo con il pieno consenso di Biden) una convention aperta a Chicago con un’investitura alternativa, una designazione preventiva o addirittura le dimissioni immediate. Nella scelta che si imporrebbe risulterebbe comunque oltremodo difficile scavalcare la vicepresidente.

UNA CRISI, in ogni caso, di produzione propria da parte di un partito che non ha saputo affrontare la questione mesi fa. Qualunque saranno ora le scelte dei dem, un’eventuale sconfitta sarà certamente aggravata dagli inevitabili dubbi sul corso prescelto.