Si sono conclusi nella giornata di ieri sabato 6 novembre i due giorni di lutto nazionale indetti dal presidente Mohamed Bazoum in Niger. Giornate di «unità nazionale e cordoglio», come dichiarato dal governo, a causa di un attacco jihadista contro gli abitanti del villaggio di Banibangou (regione di Tillabéri) in quell’area ormai tristemente nota come zona dei “tre confini” (Mali, Niger, Burkina Faso).

L’attacco è avvenuto marted scorso, ma è stato confermato giovedì sera dal governo nigerino con un bilancio di almeno 69 civili trucidati. Tutte le vittime appartenevano  alle «milizie di autodifesa locali», nate come risposta alle continue incursioni dei miliziani jihadisti appartenenti ai due gruppi presenti nell’area: il Gruppo di Sostegno all’Islam e ai musulmani (Gsim), affiliato ad Al-Qaeda, e lo Stato Islamico del Gran Sahara (Eigs).

«Martedì un convoglio delle forze di autodifesa, impegnate in un’operazione di ricerca, ha subito un’imboscata da uomini dello Stato Islamico nell’area di Adab Dab – ha riferito il ministro degli interni, Alkache Alhada – con un bilancio provvisorio di 69 morti,  15 sopravvissuti e altri 10 dispersi».

Secondo la stampa locale l’agguato sarebbe stato «una risposta dei miliziani contro la popolazione civile» e contro il sindaco di Banibangou, ucciso nell’agguato, a capo dei «Comitati di vigilanza e autodifesa locali» di tutti i villaggi della regione di Tillabéri, nati in questi ultimi due anni come risposta al clima di insicurezza della popolazione, ma scarsamente armati ed equipaggiati.

Una situazione di continua minaccia nei confronti dei civili come dei militari nigerini. La Reuters ha riportato ieri la notizia di un altro attacco avvenuto venerdì sera contro un avamposto militare ad Anzourou, sempre a Tillabéri, in cui almeno 15 militari sono rimasti uccisi.

Lo scorso gennaio 100 persone sono state uccise in attacchi contro due villaggi della regione, mentre a marzo altre 141 civili sono stati uccisi nella vicina regione di Tahoua: «un bilancio di oltre 700 civili morti nel solo 2021», secondo quanto ha stimato Human Rights Watch (Hrw) in un recente report.

Proprio a causa della gravità della situazione nella zona dei “tre confini”, lo scorso febbraio le forze della missione G5-Sahel (Mauritania, Mali, Niger, Ciad e Burkina Faso) avevano concordato di posizionare oltre 1000 militari ciadiani nell’area: misura che non ha cambiato la frequenza degli attacchi da parte dei miliziani sia in Niger che in Burkina Faso.

Come altrettanto vana è stata l’uccisione, lo scorso settembre, del leader dello Eigs Adnan Abou Walid al-Saharawi, ucciso nel nord-est del Mali in un raid aereo della forza francese Barkhane. Come indica il giornalista mauritano, specialista in questioni di terrorismo, Isselmou Ould Moustapha, su Radio France International (Rfi) «la sua morte è certamente un duro colpo per l’organizzazione, ma non significa la fine delle violenze nella regione», visto che le diverse cellule «operano in maniera autonoma anche dalla leadership».

Durante una visita nella regione di Tillabéri a settembre, il presidente nigerino, Mohamed Bazoum, ha dichiarato che «aumenterà la presenza militare in tutta l’area», indicando che «il nemico è in difficoltà e sta ripiegando con vili attacchi contro civili inermi in un massacro su larga scala».

Missione comunque molto complessa per Bazoum, eletto lo scorso anno proprio per «risolvere la questione legata alla sicurezza della popolazione » attraverso programmi di investimento nei settori della sanità, dell’istruzione e dell’occupazione per far «tornare la presenza dello stato in tutto il paese».