Mentre la pandemia del Covid-19 è nelle priorità dei governi di tutto il mondo, i conflitti che hanno occupato il centro della scena nel dibattito politico e mediatico si stanno attenuando sullo sfondo. Ma se da una parte il segretario generale delle Nazioni unite, Antonio Guterres, ha sostenuto che l’umanità affronta un nemico comune, il coronavirus, facendo appello per un «cessate il fuoco globale», lo Stato islamico e al-Qaeda hanno chiarito che vedono le cose diversamente.

COME HA EVIDENZIATO questa settimana il sito specializzato sulla minaccia jihadista, Site, entrambe i gruppi «hanno invitato i loro fedeli a colpire ovunque in Occidente o nei territori di conflitto». In un nuovo editoriale di fine marzo sulla sua newsletter Al-Naba anche lo Stato islamico ha dichiarato «di voler sfruttare questo momento di debolezza dei governi occidentali e trarne il massimo vantaggio». Secondo Al-Naba «i credenti hanno il dovere di proteggere se stessi e i loro cari dalla diffusione di Covid-19», ma soprattutto di agire: viene dunque imposto ai sostenitori dell’Isis di «liberare i prigionieri e attaccare i diversi governi “apostati”, senza mostrare loro pietà in questo momento di crisi». L’editoriale chiude ricordando ai lettori che il modo migliore per evitare il coronavirus, considerato una punizione divina, è attraverso «l’obbedienza ad Allah e il jihad».

Un’ideologia che si rispecchia anche nella strategia del caos dello Jihadismo. Già in questi anni la crescita dei gruppi jihadisti è stata più il risultato di guerre che la sua causa primaria. L’Isis e al Qaeda sono diventati una minaccia globale in gran parte sfruttando lo scontro e il fallimento dello stato prima in Afghanistan, poi in Siria e in Iraq e infine, più recentemente, nei conflitti interni dei paesi del Sahel in Africa occidentale.

PROPRIO IN QUESTI PAESI lo Stato islamico punta a riprendere la lotta. In Medio Oriente le milizie jihadiste mirano alla riconquista dei loro vecchi territori, in un’area già destabilizzata dalle tensioni tra Stati uniti e Iran e ulteriormente messa in pericolo dal coronavirus, con lo stato iracheno che «alle prese con un focolaio sempre più in ascesa, avrà difficoltà a contenere anche i miliziani jihadisti». Ma un pericolo ancora maggiore proviene dalla zona del Sahel e dal bacino del lago Ciad dove lo Stato islamico è presente con due gruppi differenti, lo Stato islamico del Gran Sahara (Eigs) e lo Stato islamico dell’Africa occidentale (Iswap). Miliziani che stanno colpendo a cadenza ormai quotidiana sia i soldati dei vari governi africani che le truppe della missione francese anti-jihadista Barkhane. Un esempio dell’attuale recrudescenza sono gli attentati contro militari e civili che ormai si verificano sempre più spesso in tutta l’area.

Come afferma l’editoriale di Al-Naba «la lotta si concentra dove i miliziani dello Stato islamico sono in netta ascesa in Africa», a causa anche di confini porosi e della mancanza di risorse dei diversi paesi africani del G5 Sahel (Burkina Faso, Niger, Mauritania, Ciad e Mali).

LA PANDEMIA rende questi gruppi ancora più pericolosi, poiché rallenta e indebolisce ulteriormente i governi e i militari locali. «Se si interrompe la cooperazione tra i paesi regionali con le crisi sanitarie locali – il Ciad ha dichiarato di voler abbandonare il G5 Sahel – o se il coronavirus richiede ai partner internazionali di disimpegnarsi, le conseguenze potrebbero essere disastrose e imprevedibili anche per l’occidente» afferma l’International Crisis Group (Ics) in un suo report sull’area.

«L’ATTENZIONE DEL MONDO è giustamente incentrata sulla risposta alla pandemia, ma la comunità internazionale non deve distogliere lo sguardo o diminuire il proprio sostegno alla lotta contro la minaccia jihadista – conclude Ics – un nemico la cui ideologia intollerante è l’opposto dell’umanitarismo che questo momento richiede».