In un recente reportage Jason Burke, corrispondente del Guardian ed esperto di jihadismo ha osservato che «dopo aver visto il crollo dello Stato islamico in Siria e Iraq, sembrava che il jihadismo globale avesse perso slancio, ma questa è una visione del tutto errata perché il terrorismo jihadista è solo mutato e ha trovato terreno fertile in Africa».

Che si tratti degli al Shabaab in Somalia, di Boko Haram in Nigeria o dello Stato islamico del Sinai in Egitto (qui la mappa completa e il trend dei vari gruppi armati attivi in Africa) , una delle costanti del continente africano è l’altissimo numero di attentati e attacchi che colpiscono indifferentemente civili e militari. Un recente report dell’Onu afferma che «nella sola area del Sahel ci sono state 4mila vittime nel 2019, oltre 2mila in Somalia negli ultimi due anni e circa 5 mila nella zona del lago Ciad». Un’emergenza sottovalutata dalla comunità internazionale anche perché tutti i gruppi armati jihadisti, dopo la sconfitta in Iraq e in Siria, puntano ad espandersi nel continente africano per creare un «nuovo Califfato».

L’unico gruppo jihadista che «ha controllato e governa tuttora parte di territorio» è proprio la milizia di al Shabaab in Somalia. Nata nel 2006 dopo la caduta delle Corti Islamiche, la formazione jihadista affiliata ad al Qaeda ha approfittato della continua instabilità politica per governare il proprio territorio e ha ottenuto consenso proprio promettendo «la sicurezza delle persone». Il gruppo guidato da Ahmed Oumar ha progressivamente perso territorio e appoggio da parte della popolazione proprio a causa della sua «radicalità» nel respingere «gli aiuti degli operatori umanitari in un paese colpito da almeno un ventennio da siccità, carestia e malattie», nell’utilizzare i civili come scudi umani dai bombardamenti americani sul proprio territorio e colpendo duramente i civili nella capitale, Mogadiscio, con attentati violentissimi – il più grave fece più di 500 vittime nel 2017.

I gruppi jihadisti dell’Africa centro-orientale (Somalia, Nigeria e Mozambico) sono nati grazie all’ideologia e ai finanziamenti degli Stati del Golfo, con l’Arabia Saudita e, successivamente, il Qatar come principali finanziatori; mentre le fazioni del Sahel e del Maghreb sono nate storicamente dalle macerie della guerra civile algerina, dove una parte di miliziani fuggì nelle aree del Mali e del Niger o dallo sviluppo del jihadismo in Tunisia e Marocco.

Due, come a livello globale, sono le principali entità jihadiste nel continente: lo Stato Islamico e al-Qaeda. Secondo International Crisis Group «i due network del jihadismo si stanno contendendo il continente africano: l’Africa orientale con al-Shabaab in Somalia, grazie al sostegno del vicino e potente Aqap (al-Qaida nella Penisola Arabica) nello Yemen, e lo stesso Boko Haram di Abubakar Shekau è sotto l’influenza di al-Qaida, l’area dell’Egitto, della Tunisia e soprattutto della Libia sotto la supremazia dell’Isis, mentre la zona del Sahel è ancora contesa da entrambi i gruppi jihadisti».

Nel Sahel abbiamo da un lato, il Gruppo di sostegno all’Islam e ai musulmani (Jnim), guidato da Iyad Ghali, che opera principalmente in Mali e che riunisce tutti i gruppi affiliati ad al Qaeda: Ansareddine, al-Mourabitoune, la katiba Macina e al-Qaida nel Maghreb (Aqmi). Dall’altro, lo Stato islamico nella provincia dell’Africa occidentale (Iswap) che opera attraverso due filiali, una nel lago Ciad e nella Nigeria nord-orientale (nato da una scissione di Boko Haram), la seconda nella zona al confine tra Mali, Niger e Burkina, meglio conosciuta come Stato Islamico del Greater Sahara (Isgs). «Stiamo assistendo a una fase in cui queste due organizzazioni competono in tutta l’area per ampliare il loro territorio, anche se non combattono apertamente tra di loro, visto che hanno interesse ad avanzare insieme di fronte a un nemico comune, vale a dire i diversi governi e i loro partner regionali e internazionali, anche se bisogna comunque vedere fino a quando le loro differenze ideologiche avranno la precedenza sull’imperativo per rimanere uniti» afferma nel suo report sul jihadismo, Jean Hervé Jezequel, analista dell’International Crisis Group.

«Nessuna vittoria o missione militare aiuterà ad arginare un fenomeno alimentato dalla contestazione di ordine sociale e politico e dalle proteste contro le élite» conclude il report di Ics. «La soluzione non può essere esclusivamente militare, ma soprattutto politica perché non è solo la jihad internazionale portata da gruppi terroristici transnazionali, cosa che sta seducendo una parte significativa delle popolazioni rurali, ma un’ondata di insurrezioni dirette contro i governi corrotti ed inefficienti in tutto il continente africano dalla Somalia alla Nigeria, dal Mali all’Egitto».