Il presidente mozambicano Filipe Nyusi lo ripete a ogni intervista: a Cabo Delgado la situazione è molto migliorata e il pericolo jihadista quasi scongiurato. L’uomo forte di Maputo ad aprile ha visitato la martoriata provincia più settentrionale del paese, sconvolta dal 2017 dagli attacchi dei miliziani affiliati allo Stato islamico e ha subito indetto una serie di conferenze stampa per lodare i progressi fatti in termini di sicurezza e stabilità.

L’interesse per questa zona è enorme, con un giacimento di gas che potrebbe produrre 13 milioni di tonnellate l’anno di gas naturale liquefatto. Gli investimenti fra on shore e off shore sfiorano i 20 miliardi di dollari, con un profitto previsto di oltre 60 miliardi già a medio termine. Il Mozambique Lng, questo il nome del consorzio che sfrutterà il giacimento, è controllato dai francesi di Total che detengono il 27% delle quote, ma significativi pacchetti azionari sono in mano anche a Eni, agli americani di Anadarko e a compagnie minori cinesi, giapponesi e indiane.

«LA SITUAZIONE APPARE davvero migliorata – dice Delfim Anacleto, giornalista del canale televisivo nazionale Tv Miramar – ma è presto per tornare a lavorare come prima del 2021. Il governatore di Cabo Delgado insiste molto sulla normalizzazione della provincia, ma le cose sono diverse sul campo. La zona costiera, dove ci sono le infrastrutture per l’estrazione del gas, è fortemente presidiata dal contingente della Missione dei Paesi dell’Africa Australe in Mozambico (Samim) a guida sudafricana e anche dai reparti speciali ruandesi portati qui dai francesi (accordo siglato a Parigi e benedetto da Macron in virtù degli interessi in loco della Total, ndr). Lo spiegamento di forze ha ridotto le azioni del gruppo islamista Ahalu al Sunna Wal Jamaah, che però continua a colpire nei distretti interni di Macomia e Muidunde».

MA LA GRANDE OPERAZIONE di marketing del governo mozambicano non sembra aver ancora convinto Total – che ha commissionato un suo report sulla reale situazione di Cabo Delgado – a sbloccare l’investimento congelato all’inizio dei combattimenti, quando l’esercito regolare non è stato in grado di frenare l’avanzata di quelli che localmente vengono chiamati al-Shaabab, ma che dal 2019 hanno giurato fedeltà allo Stato Islamico entrando nel loro progetto di vilaya chiamato Islamic State Central African Province (Iscap), che va dalle province orientali della Repubblica democratica del Congo alle coste mozambicane sull’Oceano Indiano.

Nonostante il centro di comando jihadista si sia spostato nell’interno dopo la ripresa da parte dei governativi dell’intero litorale di Mocimboa da Praia, alcune comunità costiere più isolate sono costrette a convivere con gli islamisti, che si riforniscono di cibo dai pescatori del posto. E i Makonde, un gruppo etnico che vive a cavallo fra Mozambico e Tanzania, vedono i loro giovani combattere in entrambi gli schieramenti. Spesso gli arruolamenti da parte dei jihadisti sono forzati e i miliziani rapiscono sia uomini che donne per portarli nelle zone sotto il loro controllo.

MOHAMMED HASSAN MACHADO è stato preso in uno dei tanti villaggi che costeggiano la frontiera. «Hanno attaccato il mio villaggio di notte e hanno portato via con me una decina di persone. Sono rimasto prigioniero degli Shaabab per circa due mesi, ho lavorato per loro come cuoco e uomo di fatica, mi facevano pulire e lavare. La mia famiglia si è salvata perché quella notte ero da solo, ma i miei vicini sono stati portati tutti via. Dato che noi siamo tutti musulmani hanno detto che eravamo obbligati a partecipare alla guerra contro i cristiani». L’accampamento degli islamisti si spostava continuamente e Mohammed fatica a ricostruire le zone in cui ha vissuto. «Eravamo molto controllati e non ci dicevano nulla tranne che avevano ucciso dei cristiani e che dovevamo pregare per ringraziare dei successi in guerra. Dicevano che non fanno mai cristiani prigionieri e che preferiscono ucciderli subito».

«GLI ATTACCHI ERANO FREQUENTI – prosegue il racconto – e c’era molta confusione. I miliziani dei villaggi, anche quelli di etnia Makonde, sono molto efficaci su questo territorio e proprio durante una ritirata jihadista siamo riusciti a scappare. Tutti quelli del mio villaggio sono tornati a casa sani e salvi e credo che questo sia un miracolo».

Gli abitanti della provincia di Cabo Delgado, ma ormai anche quelli delle province vicine di Nampula e soprattutto Niassa, sono le vere vittime di questa guerra irregolare che il governo di Maputo combatte con tutti i mezzi. Da ultimo, in questa zona, con un’operazione delle forze speciali mozambicane e delle milizie di autodifesa che sono state legalizzate proprio per combattere il fenomeno jihadista. Teoricamente sarebbero sotto il diretto controllo delle forze armate, ma la realtà è ben diversa e spesso queste milizie, quasi sempre organizzate su base etnica, diventano potentati locali che governano creando uno stato nello stato, facendo rispettare la propria legge con la violenza.

«IL MIO VILLAGGIO È MOLTO POVERO – conclude Mohammed – e ci facciamo bastare quello che coltiviamo, ma il governo non fa nulla per difenderci e ci sentiamo abbandonati. Per combattere gli Shaabab hanno creato delle milizie locali che spesso diventano peggiori dei terroristi».

Un problema riscontrato anche con le forze ruandesi, che recentemente hanno ucciso un pescatore scambiandolo per terrorista. Incidenti così erano già accaduti in passato. E potrebbero ripetersi, se è vero quanto sospettano in molti, che quello dello Stato Islamico sia soltanto un ritiro strategico per riorganizzarsi e studiare la disposizione delle forze messe in campo per difendere quello che potrebbe essere il più grande giacimento dell’intero continente africano e che potrebbe spostare gli equilibri di potere nella regione.