Ci sono tragedie che sfidano la pretesa di venire tradotte in parole, ed è proprio di una discesa agli inferi che consiste l’ultimo romanzo di Jesmyn Ward, scritto dopo l’ennesima tragedia che l’ha colpita, la morte del marito, una delle prime vittime americane del Covid, seguita all’uccisione del fratello e alla morte violenta degli amici di infanzia, di cui aveva parlato in uno dei testi fondamentali della moderna letteratura afro-americana: Sotto la falce, il suo romanzo più complesso e ostico, che trasuda sofferenza e lascia pensare come, in ogni pagina, l’autrice abbia dovuto impegnarsi in un corpo a corpo, prima con le sue emozioni e poi con parole e ritmo in grado di trasmetterle.

Che si tratti di un viaggio all’inferno è dichiarato apertamente sin dal titolo Giù nel cieco mondo (Let Us Descend) nell’originale (traduzione di Valentina Daniele, NNE, 2023, pp. 272, € 19,00). Schiava adolescente, Annis per tutti tranne per la madre che la chiama col suo vero nome, Arese, la protagonista, sente parlare del Canto IV dell’Inferno origliando le lezioni che il precettore impartisce alle sue sorelle bianche, figlie del padrone della piantagione, suo padre. Come Dante, che Ward citerà di nuovo a più riprese, anche la ragazza nera, frutto di uno stupro  brutale e prolungato, dovrà calarsi in tenebre sempre più fitte. Perderà la madre, venduta dal padrone. Perderà l’amica e amante. Sarà anche lei venduta e finirà schiava in un’altra piantagione, trasportata in catene, costretta a una marcia atroce che ricorda quella seguita allo sgombro di Auschwitz.

Immaginare, inventare non basta: per descrivere quel che si prova in un inferno bisogna averlo conosciuto. Jesmyn Ward può rifarsi alla propria esperienza, al dolore che conosce, allo strazio che ha sperimentato: non solo a quel che implica l’essere schiavi, ma al lutto, alla separazione da ogni affetto, alla solitudine, al tormento che la vita può infliggere e alla forza necessaria per uscirne vivi. Annis/Arese è nipote della moglie guerriera, una delle tante, di un re africano. La madre le insegna a combattere, sfuggendo nella notte alla sorveglianza dei guardiani. Quelle lezioni non le serviranno apparentemente a niente, Annis non combatterà mai col bastone e con la lancia; eppure, se esce «a riveder le stelle» è grazie a quell’addestramento, dunque grazie alla madre e prima ancora alla nonna sconosciuta, l’amazzone fatta schiava e portata in catene dall’Africa.

Non ci sono veri personaggi maschili nel libro di Jesmyn Ward: molti uomini traversano la strada di Annis, ma come apparizioni fuggenti, quasi sempre minacciose e rapaci, a volte rassicuranti e persino affettuose, ma solo per brevi attimi. La sua è una storia di donne: di amanti e amiche, di maestre che aiutano o di padrone che puniscono, ma soprattutto di madri e figlie. Esibendo la sua visione sulle linee del sangue indistricabilmente intrecciate, che compongono la cifra segreta del Sud degli Stati Uniti, Jesmyn Ward ha voluto scrivere un romanzo che riguardasse anche la  maternità, le figlie che imparano dalle madri e da loro vengono separate a forza, ciò che le costringe a ricrearne l’immagine nella mente, per non perderle davvero. La liberazione di Annis, primo passo verso l’uscita dall’inferno, è una ripetizione – da Ward resa magistralmente – della nascita, la faticosa e difficile uscita dal ventre della terra descritta esattamente come fosse un parto.

Se Giù nel cieco mondo è un romanzo tanto complesso, e a tratti faticoso, è perché l’autrice sembra essere partita dal progetto di rendere uno spaccato sullo schiavismo e sul Sud, per poi essere costretta a modificarlo, pressata da un’altra urgenza, quella di affrontare la sua stessa parabola di donna, figlia, madre. Ward non dimentica mai che lo schiavismo è prima di tutto una questione fisica, e dal corpo invade la psiche: le catene segano, le ferite urlano, la fatica estenua, la fame divora. E l’assenza di abbracci è assetante, la mancanza di qualcuno a sé vicino perseguita più della frusta.

La riduzione del corpo a oggetto buono per tutti gli usi, dal lavoro per il padrone al suo piacere, priva lo schiavo di ogni dignità. L’inferno, per Jesmyn Ward, è questo: deprivazione assoluta. Lo spirito guerriero della nonna africana e della madre, gli esercizi con cui ha imparato a rendere bastoni e lance armi letali, non servono ad Annis per combattere ma per difendersi dall’annientamento interiore. Una simile escursione nella condizione  peggiore che possa capitare a esseri umani poteva essere narrata con lo stesso realismo con il quale, in Sotto la falce, Ward aveva raccontato la sorte dei discendenti degli schiavi, oppressi oggi da altre catene.

Ma la scrittrice cambia radicalmente stile: nel suo nuovo libro rende Dante così onnipresente non solo per il parallelismo, in fondo superficiale, tra  l’Inferno immaginario della Commedia e quello reale degli africani fatti schiavi: è sul terreno dell’allegoria che lo insegue. Evoca a questo scopo i culti animistici africani, onnipresenti nell’area in cui la scrittrice è nata e cresciuta, tra il Mississippi e la Louisiana. Nella sua solitudine Annis è aiutata e allo stesso tempo contesa dagli spiriti dell’aria, dell’acqua e della terra, che la salvano e però la costringono anche a scegliere chi diventare, in quella seconda venuta al mondo che è la libertà, per chi non ha mai avuto alcun controllo non solo sulla propria vita ma persino sui propri movimenti. Il bivio di fronte al quale si trova Annis è tra il restare figlia, come vorrebbero l’aria e il vento, o il diventare una madre, spinta dalla terra da cui emersa come dal grembo della genitrice perduta.

Scritto in un momento particolarmente sofferto della vita dell’autrice, Let Us Descend non è, come probabilmente avrebbe voluto il progetto iniziale, il grande romanzo sullo schiavismo e sui legami di sangue segreti, che rendono il Sud un enigma indecifrabile. Quel romanzo è già stato scritto da Toni Morrison, con l’ineguagliabile Amatissima. E tuttavia, nessun libro era stato sinora capace di descrivere con altrettanta intensità e minuzia il baratro di dolore da cui è nata la grande arte delle donne afro-americane del Novecento: da Zora Neale Hurston a Billie Holiday, dalla stessa Toni Morrison, a Nina Simone, nel blues. Tutte figlie spirituali della schiava Annis.