È il gennaio del 1846. In poche settimane lo strabiliante successo di Povera gente ha fatto di Dostoevskij lo scrittore più famoso di tutta la Russia. La sua autostima, l’assoluta consapevolezza del proprio genio non saranno mai più su una vetta così alta. La caduta rovinosa fino alla Siberia lascerà sempre come strascico una vena scoperta di vanità non corrisposta, di suscettibilità esacerbata. Eppure, neanche un mese dopo il trionfo c’era già chi soffiava sui suoi nervi comunque a fior di pelle. E a farlo era un altro classico venturo, Ivan Turgenev.

Suo sodale nel gruppo dei letterati innovatori in arte e in politica radunati attorno a Belinskij, il padre della critica letteraria russa, Turgenev, assieme a Nekrasov, altro maître à penser del nascente realismo, scrive otto urticanti quartine all’indirizzo del «cavaliere dalla dolente figura» rosseggiante «come un nuovo brufolo sul naso della letteratura».

C’è chi vive di rendita
I giovani radicali, che si stavano disamorando di un Dostoevskij già troppo distante dai loro affreschi sociali à la Balzac, ne fanno un donchisciotte impacciato e nevrotico, vittima, all’insaputa sua e loro, dei primi sintomi di epilessia quando rischia di svenire davanti alla disarmante bellezza di una dama appena presentatagli.

Si racconta di un Turgenev che stuzzicava senza posa Dostoevskij, giocando con finezza dialettica sul suo mix di insicurezza e superbia. È qui che inizia una ostilità viscerale, feroce, traversata a fasi alterne da non insinceri attestati di stima per il talento altrui.

Mettiamo che una persona incontri un leone. Che farà? Impallidirà e proverà a scappare o a nascondersi… Ma Dostoevskij dirà: quell’uomo è diventato rosso ed è rimasto immobile (Ivan Turgenev)

Dostoevskij disapprova in Turgenev le concessioni al fantastico, il troppo protagonismo dell’Io nel testo, alcuni eccessi di sentimentalismo. Turgenev avanza critiche forse più radicali contro l’estremizzazione e la conseguente innaturalezza dello psicologismo di Dostoevskij, contro l’esaltazione masochistica della sofferenza. I veri semi della discordia, però, maturano altrove. In primo luogo c’è un vistoso innesco sul piano fisico. Stupisce la prima impressione di Dostoevskij all’incontro con Turgenev, pochi mesi prima di riceverne le bordate satiriche: «Poeta, talento, aristocratico, bello, ricco, intelligente, colto, 25 anni, non saprei cosa la natura avrebbe potuto regalargli di più».

E si descrive come oggetto di un non minore entusiasmo da parte dell’altro. Sembra aleggiare un’attrazione presto mutata in radicale repulsione: Turgenev non mancherà di sottolineare l’angolosità, la goffaggine, la fisionomia sbiadita del rivale, mentre Dostoevskij pone più volte l’accento sulla voce squillante, femminea di Turgenev, sui suoi toni e modi sdolcinati. Ha poi un avvertimento del tutto fisico riguardo al censo dell’altro, e mostra per Turgenev la stessa sincera invidia irta di aculei che provava per Tolstoj: è facile scrivere quando si vive di rendita – pensa –; io devo farlo sempre di fretta, tralasciando le revisioni, perché solo gli onorari possono placare i debitori.

Il solco più profondo, però, passa sul piano ideologico. Al ritorno dalla Siberia non c’è più traccia in Dostoevskij delle simpatie, forse anche congiunturali, per le idee radicali che negli anni Quaranta dominavano la strettamente congiunta scena politico-letteraria. È un conservatore convinto, slavofilo, sostenitore della vocazione esclusiva del popolo russo. Turgenev, invece, è lo scrittore occidentalista per eccellenza, ateo, in sostanza un aristocratico liberale ma, soprattutto in gioventù e in vecchiaia, vicino a idee socialiste e anche anarchiche.

A questo proposito ha assunto ormai contorni epici nella memoria collettiva l’aspro confronto avvenuto a Baden-Baden il 10 luglio 1867, così come lo racconta Dostoevskij in una lettera a Apollon Majkov: è il momento più basso della carriera di Turgenev, il romanzo Fumo, critico verso gli estremismi del nascente movimento rivoluzionario, è stato accolto in Russia con grande freddezza.

Dostoevskij si compiace nel raccontare dell’infantile autocommiserazione di Turgenev, alla quale si accompagnano giudizi molto critici sulla Russia, che colorisce di idiotismo animalesco, arrivando a dichiararsi indifferente a una sua eventuale sparizione. Al che Dostoevskij fa sfoggio della battuta del telescopio, unico strumento che potrebbe aiutare a correggere la visione distorta del rivale, in quegli anni emigrato di fatto in Germania. E proprio sui tedeschi si accanisce poi la bile patriottica di Dostoevskij, suscitando la reazione indignata di Turgenev, pronto a definirsi ormai piuttosto tedesco che russo.

Mi inchino davanti alla grandezza del genio; ma perché questi nostri signori geni… così pieni di trionfi si comportano… come dei ragazzini? (Fëdor Dostoevskij)

Parodia vendicativa
Di questa furente tenzone dialettica conosciamo solo la versione di Dostoevskij, che non manca di rimarcare come le stoccate algide e veementi di entrambi venivano portate senza alzare mai la voce, senza che venisse mai meno il formale rispetto reciproco di rapporti al massimo grado ambigui, scanditi su molteplici piani inconsci e relativi alla contingenza. Dostoevskij dimentica infatti di dire che nell’intervallo tra il diverbio e la lettera a Majkov ne aveva inviata, tra gli spasmi della ludopatia, un’altra molto accorata proprio a Turgenev, implorando (e ottenendo) un prestito di 50 talleri. E numerose altre, sempre esaudite, sono state le richieste di supporto economico rivolte da Dostoevskij al rivale.

Eppure, fra tutte le questioni di conio, la più emblematica è una direzionata all’opposto: nel 1864 Turgenev aveva pubblicato il racconto «Fantasmi» sulla rivista «Epocha», diretta dal fratello di Dostoevskij, Michail, che di lì a pochi mesi sarebbe morto. In uno dei suoi tipici slanci di altruismo e prodigalità, Dostoevskij si era fatto carico di tutti i debiti del fratello, li aveva in larga parte saldati, ma alla fine era dovuto riparare all’estero per sottrarsi ai creditori, propri e acquisiti. Consapevole delle circostanze, Turgenev non manca di sollecitare più volte il fuggiasco in merito all’onorario non versatogli. Dostoevskij finirà col pagare, ma terrà bene a mente la mancata magnanimità dell’altro.

Quasi dieci anni dopo, scandagliando le pieghe più torve dell’anima russa fra le pagine del suo romanzo I demoni, Dostoevskij troverà ampio spazio per un’articolata parodia di Turgenev, presentato, sotto le trasparenti spoglie di Karmazinov, come un tronfio letterato sopravvissuto alla propria fama, avido di lusinghe, compiaciuto nell’incutere soggezione e prodigo di altre piccolezze, nonché intento a flirtare con i terroristi, e meritevole dei lazzi di un pubblico provinciale stremato da una sua interminabile lettura. Il testo che in quell’occasione il narratore parafrasa sarcasticamente, condito degli inconfondibili motivi turgeneviani dei primi innamoramenti e del ricordo di un antico amore perduto, si concentra però sulle stravaganti peregrinazioni nello spazio e nel tempo di una coppia dal fluttuante status ontologico, nelle quali non è difficile riconoscere proprio l’intreccio di «Fantasmi».

Vezzi truffaldini
L’ultimo incontro tra i due ricapitola perfettamente le dinamiche sottese a una vita intera: l’occasione è il ritorno in Russia di Turgenev, nel 1880, per la sontuosa cerimonia di inaugurazione del monumento a Puškin di Mosca. Le circostanze stesse, oltre all’età ormai avanzata di entrambi, sembrano dettare un clima di distensione, al quale certamente contribuisce Dostoevskij, citando come esempio di nobile russità Liza Kalinina, la protagonista femminile di Nido di nobili che si fa monaca.

Al termine di quel discorso d’inquadramento storico-letterario destinato a restare nella storia, sembra che Turgenev gli si sia gettato al collo. Ma in quel gesto Dostoevskij non avrà di certo mancato di identificare, come in una lettera, come in Karmazinov, il tipico truffaldino vezzo di Turgenev che avanza per abbracciare, ma all’ultimo secondo gira il collo e costringe l’altro a baciarlo.