Gentile Massimo Gramellini,

lei scrive nel suo caffè mattutino che: «Una bambina di Modena iscritta alla seconda elementare si ritrova in classe, unica italiana, con diciotto bimbi di altre etnie che la isolano durante la ricreazione, parlano altre lingue, non vanno alle sue feste e non la invitano alle loro. È la realtà di certi quartieri-ghetto poco frequentati dai radical chic, dove si sperimenta la sgradevole sensazione di sentirsi ospiti a casa propria e di subire quelle discriminazioni che in ogni parte del mondo insidiano le minoranze… La scuola della discordia si difende ricordando che la metà dei bambini di quella classe è nata in Italia. Un particolare che soddisferà uno dei requisiti del futuro ius soli, ma che di per sé non significa nulla, se le famiglie di provenienza degli alunni continuano a educarli secondo i loro pregiudizi. Infatti, secondo le accuse, a fare precipitare la situazione sarebbe stata la mamma marocchina di una di queste bimbe, che avrebbe istigato la figlia a maltrattare la piccola modenese. L’integrazione resta l’unica carta per una civiltà che ha smesso di fare figli e si ritrova a condividere i suoi spazi con chi invece di figli ne fa ancora. Ma come non la si favorisce erigendo muri, così non la si aiuta calando le braghe. E cioè creando ghetti in cui i pochi di origine italiana sono costretti a recitare la parte degli intrusi».

Lei ha a disposizione platee televisive, media di massa, giornali mainstream e quindi le sue parole pesano nella formazione delle coscienze.

Premetto che non sono radical-chic. Non amo il cinema radical-chic minimalista italiano. Mio padre aveva conseguito a Bari la licenza elementare giusto per poter essere assunto come impiegato alle Poste. Era socialista. Credeva nell’uguaglianza.

Dunque le mie origini non sono radical-chic. Mi piace il calcio, cosa che i radical-chic non amano. Spero che il Napoli vinca lo scudetto. Diego Armando Maradona è stato l’antitesi del radical-chic. Ascolto a palla Bruce Springsteen e potrei cliccare dieci volte di seguito sul brano At Folsom Prison di Johnny Cash, che per storia e caratteristiche è l’opposto degli artisti radical-chic.

Non penso che mio padre, Bruce Springsteen, Johnny Cash e forse anche Diego Armando Maradona sarebbero d’accordo con lei. Hanno tutti una visione non radical-chic ma autentica, a tratti profonda, personale, dei rapporti sociali. Non basta fotografare una vicenda per commentarla. Bisogna rendersi conto degli effetti indiretti delle proprie parole, soprattutto in un momento storico dove il razzismo è sdoganato e i populismi urlano trionfanti e ci minacciano anche personalmente.

È certo che il problema della scuola modenese è quello che lei racconta e non invece una ghettizzazione dei migranti con cui nessun vuole avere a che fare per pregiudizi diffusi? Può essere mai che tutto nasca da una mamma marocchina che istiga sua figlia a maltrattare un’amichetta? Perché non sentire in profondità quello che raccontano le insegnanti, ossia che metà dei bambini sarebbero italiani se solo gli avessimo dato la cittadinanza. Non essendo radical-chic ho una famiglia numerosa e tre figli piccoli. Le dico per cognizione di causa che i muri li ergono i grandi, come noi e come lei, e non i bambini, disposti sempre a divertirsi con tutti, a prescindere da nazionalità, religioni e culture.

Lo ius soli è una norma di civiltà. La presenza nelle scuole di figli di stranieri immigrati non è segno di uno Stato che si cala le braghe ma di uno Stato aperto, sereno e democratico. Le forze politiche e gli opinionisti hanno oramai da tempo rinunciato a svolgere una funzione pedagogica di massa, invece prevale il pensiero omologato anti-immigrati, che usa le sue stesse parole come ad esempio «casa propria». L’idea di Stato come casa propria è poco lungimirante. Io vorrei sentirmi a casa mia anche a Londra, anche se hanno votato la Brexit. Nel sud siamo abituati a dire «fai come se stai a casa tua», per far sì che una persona sia a proprio agio.

Detto questo, uno, dieci, cento, mille radical-chic se sono disposti a integrare i loro figli in scuole dove per caso o per scelta vi sia una prevalenza di ragazzini immigrati. E soprattutto viva la scuola pubblica universalista.