Come l’accordo in fieri tra talebani e americani enucleato nel Qatar, anche il ritiro dell’Italia dall’Afghanistan – bandiera elettorale dei partiti ora al governo – è poco più di un’indiscrezione che recita così: il ministro della Difesa Elisabetta Trenta ha dato «disposizioni al Comando operativo di vertice interforze (Coi) di valutare l’avvio di una pianificazione per il ritiro del contingente italiano in Afghanistan con un orizzonte temporale che potrebbe essere quello di 12 mesi».

In buona sostanza, senza essere riusciti a ridurre il contingente quando gli americani han preteso che noi restassimo, adesso – che da Washington si suona il “liberi tutti” – noi lestamente ci accodiamo. E saremo in buona compagnia: anche tedeschi, inglesi e tutti gli altri partner della missione Nato Resolute support potranno seguire a ruota e fare le valigie.

Un negoziato di pace è sempre una buona notizia, chiunque sia il mediatore e qualunque sia il risultato se le armi finalmente inizieranno a tacere. Ma è grave quanto triste che la diplomazia italiana – e con lei quella europea – non siano riuscite a dire a riguardo una sola parola per non disturbare il manovratore verso il quale noi europei abbiamo sempre agito in totale sudditanza. Politica e militare. Soprattutto militare, tanto che noi italiani abbiamo delegato soprattutto alla Difesa il dossier afghano specie da quando La Russa ne divenne il titolare, inaugurando la pratica di vestire la mimetica. Da quanto tempo un premier italiano non va in Afghanistan? Di regola ci va il ministro di Via XX settembre che non passa mai a trovare il capo di Stato – come un seria etichetta richiederebbe – ma solo i suoi militari nelle caserme ospiti del Paese. Un registro che il governo gialloverde non ha cambiato.

In dodici mesi dunque si dovrebbero ritirare i nostri 900 militari, i 148 automezzi, gli 8 velivoli e i diversi droni in gran parte dislocati a Herat e in piccola parte a Kabul. E potrebbe essere questa l’occasione per dimostrare agli afghani che un impegno civile può continuare, il che sta sempre in capo alle decisioni politiche. Ormai da anni la cooperazione è interdetta alle Ong, disincentivate e sconsigliate dal mettere piede in Afghanistan (salvo rare eccezioni come Emergency o Pangea che vivono di fondi propri).

Dopo aver perso la guerra, forse potremmo almeno tentare di sostenere la pace.