Mentre Trump incontrava a New York il suo «dittatore preferito» (così aveva definito poche settimane fa Abdel Fattah al-Sisi), in Egitto il giro di vite innescato dalle proteste esplose venerdì scorso ha raggiunto un livello di isteria senza precedenti. I due presidenti si sono incontrati lunedì a margine dell’Assemblea generale Onu.

Trump ha come al solito osannato il suo omologo egiziano e, sminuendo la portata delle proteste in corso in Egitto, ha affermato: «Non mi preoccupano. L’Egitto ha un grande leader, è molto rispettato. Ha portato ordine, prima che ci fosse lui c’era molto poco ordine, c’era il caos».

Accanto a lui, con espressione sprezzante, sedeva un sorridente al-Sisi. Il generale-presidente alla stessa domanda ha dato una risposta molto vaga, accusando «l’Islam politico» di destabilizzare l’intera regione e l’Egitto.

Secondo le stime diffuse dagli avvocati impegnati sul fronte della difesa legale, sono almeno 1.500 le persone detenute in seguito alle proteste di venerdì. I legali sono riusciti a risalire ai nomi di circa 800 di questi. Gli arrestati (per i quali lo stato di fermo è stato prorogato di 15 giorni) rientrano tutti in un’unica maxi-inchiesta che li vede accusati di «appartenenza a organizzazione terroristica e uso dei social media per diffondere notizie false».

Nella giornata di ieri la leadership del partito islamista Istiqlal (fuori legge dal 2014) è stata interamente decapitata dagli arresti. Secondo una fonte parlamentare filo-regime citata da MadaMasr, gli apparati di sicurezza intenderebbero ampliare la campagna repressiva per colpire soprattutto i partiti di opposizione.

In questi giorni sono finiti dietro le sbarre anche due leader sindacali di Suez, esponenti di partiti di sinistra, almeno due avvocatesse e tre giornalisti. Proprio a Suez un gruppo di operai radunati per inscenare una manifestazione pro-regime ieri si è ribellata trasformando la farsa in una protesta anti-Sisi.

La situazione più grave sembra essere quella vissuta al Cairo, soprattutto nei quartieri del centro della capitale. Una testimone (che chiede di restare anonima) ha descritto al manifesto una città totalmente militarizzata: «Non avevamo mai visto una situazione così pesante. Hanno fatto blitz in casa di tutti nostri conoscenti. Tra poco toccherà a noi. Controllano i pc, i cellulari e spesso portano le persone in caserma interrogandole per tutta la notte. Conosco uno studente che una sera è stato prelevato, bendato e portato in un ufficio insieme ad altri ragazzi. Lì sono stati pestati tutta la notte e poi lasciati andare».

«Una follia» è il termine più adatto a spiegare il livello di sicurezza in città. «Ci sono controlli ovunque. Agenti in borghese, baltagiya [bande criminali assoldate dal ministero dell’Interno], camionette ovunque».

Una novità inquietante è che tra le forze di sicurezza schierate ci sono molte agenti donne: «Prendono di mira le ragazze, ne stanno arrestando tantissime. Non era mai successo a questi livelli». Il rischio è tale che si può essere fermati e sequestrati senza alcun motivo. «Molti di quelli che vengono presi non sono affatto persone politicizzate. Alcuni di noi non escono di casa da giorni per paura».

Il coprifuoco non dichiarato inizia verso le tre del pomeriggio, quando i controlli si intensificano e diventa rischioso camminare per strada. I lavoratori cercano di rientrare a casa il prima possibile per non essere costretti ad attraversare il centro di sera. «A Talaat Harb, una piazza centrale poco distante da Tahrir, la situazione è assurda: è impossibile camminare per la quantità di camionette e polizia», continua la testimone.

Insomma, la strategia del regime sembra duplice: da una parte colpire gli attivisti per impedire qualsiasi saldatura tra le opposizioni organizzate e il movimento spontaneo di massa emerso in questi giorni, dall’altra diffondere il più possibile il terrore tra la popolazione. Prossimo appuntamento in piazza venerdì (quando al-Sisi dovrebbe già essere tornato in patria), ma in questo clima è difficile prevedere che cosa potrà accadere.