Negli ultimi giorni i cittadini israeliani, già esausti dopo quasi sei mesi di guerra e oltre un anno di proteste, si confrontano con una nuova minaccia: la perdita dell’appoggio incondizionato degli Stati uniti di cui lo stato ebraico ha goduto finora. Dopo numerosi avvertimenti sull’inopportunità di intraprendere una massiccia operazione di terra nella zona di Rafah, gli Stati uniti, spazientiti, sembrano aver fatto un passo avanti omettendo di porre il veto alla risoluzione a favore del cessate il fuoco approvata dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni unite.

L’astensione, che equivale all’avvallo della posizione Onu, non è stata tuttavia digerita dal primo ministro israeliano che ha definito la scelta degli alleati un errore che favorisce Hamas facendogli credere di poter ottenere il cessate il fuoco senza il rilascio degli ostaggi.

MA NETANYAHU non si è limitato ai commenti e, bloccando la partenza della delegazione israeliana attesa negli Usa, ha creato un caso diplomatico che rischia di mettere Israele in serie difficoltà. Gli Stati Uniti, dal canto loro, mantengono un atteggiamento ambiguo.

Se da una parte minimizzano riconfermando il loro appoggio così come il diritto di Israele a difendersi da Hamas dopo gli attacchi del 7 ottobre, non perdono occasione per ribadire la necessità di adottare una linea che metta da parte i combattimenti favorendo l’ingresso di aiuti umanitari nella Striscia insieme all’avanzamento della trattativa diplomatica per il rilascio degli ostaggi.

Di fronte allo spettro dell’isolamento, benché come sempre frastagliata, l’opinione pubblica interna è scossa percependo la minaccia di una fragilità sconosciuta. Il quotidiano di centro destra Maariv parla di «azzardo» di Netanyahu accusandolo di giocare una posta sempre più alta senza tenere in considerazione i rischi ai quali espone l’intero paese.

Secondo il giornalista Ben Caspit, darebbe in questo modo agli elettori non solo una dimostrazione di apparente forza, ma ne distrarrebbe l’attenzione dalla legge sull’esonero degli ultraortodossi dalla leva obbligatoria che manda in escandescenze tutto il resto della popolazione.

Come tuttavia fa notare Meron Rapoport, nel suo contributo per la testata Local Call, la riprovazione degli israeliani nei confronti delle sconsideratezze di Netanyahu si riferisce solo all’infelice scelta diplomatica del mancato invio della delegazione. Buona parte della popolazione, compresi i membri dell’opposizione e con loro Ganz e Lapid, condividerebbe con il premier la percezione che la richiesta di cessate il fuoco sia un tradimento da parte Usa.

Il minimo comune multiplo è che Israele deve proseguire la guerra entrando a Rafah, nonostante da settimane si dica che protrarre il conflitto sia nell’interesse personale di Netanyahu che cerca di rimandare il giorno in cui dovrà rispondere della catastrofe, lasciare la poltrona e probabilmente andare in galera, e benché sia ormai opinione di molti analisti che «annientare Hamas» sia un obiettivo pressoché irrealizzabile.

SECONDO RAPOPORT il caos militare proteggerebbe gli israeliani sollevandoli dall’affrontare seriamente la questione palestinese giungendo a una soluzione politica. La prassi di minimizzare la questione dedicandovi il minimo sforzo sarebbe così radicata da farli cadere nella trappola di Netanyahu pur di non dovercisi confrontare una volta per tutte.

La situazione sembra complicarsi ogni giorno, tuttavia già in passato vi sono stati capovolgimenti repentini anche grazie all’intervento degli Stati uniti come nel caso degli Accordi di Oslo. Inoltre i sondaggi mostrano chiaramente che oltre la metà degli israeliani appoggiano una trattativa diplomatica per gli ostaggi.

Nel frattempo la trattativa sugli ostaggi in Corso a Doha in Qatar ha raggiunto di nuovo un punto morto anche a causa del rifiuto apposto da Hamas alle nuove condizioni, mentre le tensioni con il Libano a nord di Israele hanno visto una pericolosa escalation nella giornata di martedì con allarmi in tutta la Galilea del nord.