«L’Isis rimane una minaccia significativa», ha avvertito a inizio settimana il segretario di Stato americano Mike Pompeo in occasione del primo anniversario dell’uccisione di Abu Bakr al-Baghdadi, fondatore e leader dello Stato Islamico in Iraq e Siria. Ciò che Pompeo ha mancato di ricordare, ribadendo «l’impegno degli Usa contro il terrorismo jihadista», è che l’Isis non ha mai cessato di esistere e di combattere, al contrario di ciò che affermava la Casa Bianca dopo la caduta di Mosul e Raqqa e le roccaforti del Califfato.

Cellule ben organizzate e ben armate colpiscono in modo micidiale in Siria, paese che in questo momento, più di ogni altro, porta il peso della lotta allo Stato islamico. Nei giorni scorsi sono divampati combattimenti feroci nella Siria centrale tra miliziani dell’Isis e l’esercito siriano. Almeno 30 i morti, tra questi almeno la metà erano soldati. Decisivo è stato ancora una volta l’intervento dell’aviazione russa – Mosca è alleata di Damasco – che ha martellato le postazioni jihadiste a est di Hama e a sud di Raqqa.

Lo scontro si sta intensificando nel triangolo di territorio tra Raqqa, Hama e Dayr az Zor dove a conti fatti l’Isis non è mai stato sconfitto. Nei mesi scorsi dozzine di soldati siriani sono caduti in imboscate compiute da cellule del Califfato molto agguerrite. La tensione sta salendo anche ad ovest, verso Idlib, la regione siriana divenuta negli ultimi anni una roccaforte di qaedisti e jihadisti, protetta militarmente dalla Turchia.

Due civili, secondo fonti locali, sarebbero stati uccisi e altri nove feriti a causa di colpi sparati dall’artiglieria governativa contro i mercenari siriani agli ordini di Ankara, alla periferia della cittadina di Ariha.  Missili e bombe sganciati dagli aerei russi hanno ucciso o ferito circa 200 miliziani. Le forze filo turche da parte loro sparano razzi e colpi di mortaio in direzione di Hama, Latakiya e Aleppo. A questo clima di tensione in Siria si aggiunge il peggioramento dei rapporti tra Turchia e Russia, aggravato dal conflitto tra Armenia e Azerbaijan in cui Ankara appoggia Baku mentre la Russia, pur proclamandosi neutrale, in realtà pende dalla parte di Yerevan.

Mosca intanto accelera anche sul fronte politico e diplomatico siriano. Una nuova delegazione, dopo quella di alto rango giunta in Siria nelle passate settimane, è nella regione da alcuni giorni. Ieri era a Damasco dal presidente Bashar Assad. Il giorno prima aveva incontrato a Beirut il presidente Michel Aoun e vari rappresentanti libanesi.

La Russia intende organizzare entro novembre in Kazakhstan una conferenza internazionale sulla questione del ritorno in patria dei quattro milioni di profughi fuggiti dalla guerra in Siria e si sono diretti verso Libano, Turchia e Giordania. Secondo Mosca la situazione è tornata a una sostanziale normalità in gran parte della Siria e esisterebbero le condizioni per il rientro dei profughi nel paese d’origine.

Il Libano, dove i rifugiati siriani sono almeno un milione e mezzo tra sei milioni di libanesi, è favorevole alla conferenza e spinge per il rimpatrio dei profughi. Invece l’agenzia dell’Onu per i rifugiati, Unhcr, si oppone e ripete che i profughi potranno tornare solo in condizioni di piena sicurezza. In realtà sulla questione pesa da tempo la contrarietà dell’Ue e soprattutto dell’Amministrazione Usa. Per Washington il rientro dei rifugiati in Siria e l’inizio della ricostruzione del paese arabo equivarrebbero a un riconoscimento internazionale della «vittoria di Bashar Assad».